Ho già trattato in questo blog di quanto sia arduo per l’Unione Europea trovare un giusto equilibrio dinanzi alla situazione in Medio Oriente. Il discorso di 11 minuti che il presidente francese Emmanuel Macron ha pronunciato ieri sera alla televisione ha messo in luce nuove difficoltà. L’accoglienza di milioni di musulmani durante la crisi migratoria del 2015-2016 sta influenzando l’atteggiamento europeo.
Il Capo dello Stato ha preso posizione a favore di Israele, ma ha richiamato più volte i francesi “a rimanere uniti”. Più che in altre occasioni Parigi ha scelto chiaramente la parte di Tel Aviv; e non solo perché l’aggressione, questa volta, è giunta chiaramente da Hamas. Vi è almeno un altro motivo dietro alla scelta di Emmanuel Macron, e ha a che fare con gli attentati del Bataclan.
Nel novembre del 2015, un gruppo di terroristi islamisti uccise 130 persone in alcuni quartieri della rive droite di Parigi. Apparire sensibile alla causa palestinese oggi avrebbe esposto il presidente alle critiche dell’estrema destra, che lo avrebbe accusato di tradimento della patria, di insensibilità nei confronti delle vittime francesi (tanto più che tra gli ostaggi a Gaza vi sono cittadini transalpini).
Lo stesso vale in Ungheria e in Austria dove i partiti al potere assumono posizioni filo-israeliane pur di distanziarsi il più possibile dalle opinioni dei partiti più estremisti.
Nel contempo, come detto, il presidente francese ha richiamato all’unità. Nel paese vivono sei milioni di musulmani (pari al 10% della popolazione). I dirigenti francesi non possono non tenere conto di una minoranza araba, spesso maghrebina, che ancora oggi è integrata solo parzialmente. Le statistiche ne mostrano il ritardo educativo ed economico. Peraltro non sono mancate le violenze islamiste negli ultimi anni.
C’è il timore di una contro-reazione violenta. Il ministro degli Interni Gérard Darmanin ha annunciato fin da sabato di avere deciso un rafforzamento della protezione di 500 luoghi ebraici, tra scuole e sinagoghe. Qualche giorno dopo ha addirittura inviato ai prefetti un telegramma in cui ha vietato in tutto il paese manifestazioni pro-palestinesi.
La situazione in Germania è solo parzialmente dissimile. A 80 anni dal dramma dell’Olocausto, le colpe tedesche inducono sempre il paese ad allinearsi sulle posizioni israeliane. Così è stato anche questa volta, ma in privato esponenti tedeschi non nascondono il loro imbarazzo e la loro preoccupazione, tenuto conto dei profondi cambiamenti demografici avvenuti in questi anni.
Il numero dei residenti in Germania di religione musulmana è salito da 4,2 milioni nel 2010 a 5,5 milioni nel 2020. Oggi la cifra potrebbe essere salita a 5,6 milioni, secondo le più recenti stime. I musulmani rappresentano ormai il 6,7% della popolazione. L’accoglienza delle centinaia di migliaia di persone provenienti dalla Siria e dall’Iraq tra il 2015 e il 2016 ha lasciato il segno, e potrebbe in ultima analisi indurre l’establishment tedesco ad attenuare o a rivedere le proprie posizioni pro-israeliane.
Lo stesso vale per altri paesi che hanno accolto molti musulmani in questi anni. In Svezia sarebbero ormai 800mila su una popolazione di nove milioni di persone (erano 200mila venti anni fa). In Belgio, teatro di gravissimi attentati islamisti nel 2016, sarebbero tra i 600 e gli 800mila, provenienti soprattutto dal Marocco e dalla Turchia, ma secondo una ricerca del Pew Research Center risalente al 2017 il numero totale potrebbe salire a 1,149 milioni da qui al 2030.
Non per altro quando nel fine settimana la Commissione europea ha deciso di proiettare la bandiera di Israele sulla facciata della sede dell’esecutivo comunitario, le autorità belghe, preoccupate per le eventuali reazioni della loro comunità musulmana, si sono indispettite per non esserne state informate.
Intervistato da Politico ieri Henry Kissinger ha reagito dinanzi alle recenti manifestazioni pro-Hamas nelle strade di Berlino: “È stato un grave errore far entrare così tante persone provenienti da culture, religioni e concetti totalmente diversi, perché si crea un gruppo di pressione all’interno di ogni Paese che agisce in questo modo”.