Crisi dei rifugiati: 20 anni dopo, un nuovo detonatore nei Balcani?

Ufficialmente, il vertice organizzato domenica 25 ottobre dalla Commissione europea a Bruxelles ha avuto l’obiettivo di creare maggiore collaborazione tra tutti i paesi coinvolti nell’arrivo di migliaia di rifugiati provenienti dal Vicino Oriente, la Siria e l’Irak in particolare. L’incontro ha raggruppato una serie di stati dalla Germania alla Grecia, lungo tutta la dorsale orientale dell’Adriatico, oltre che molti paesi dell’Europa centro-orientale. Ma dietro all’organizzazione del summit c’era anche un non-detto: smorzare per quanto possibile le tensioni tra i paesi dell’ex Iugoslavia, in quei Balcani che secondo Winston Churchill “producono più storia di quanto non ne consumino”. MostarA 20 anni dalla fine della guerra civile in quella regione, i contrasti comunitari sono solo sopiti. La tregua regge, la convivenza è pacifica, ma il clima tra bosniaci musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi non è propriamente sereno. Non c’è paese e città che non ricordi a due decenni di distanza la guerra degli anni 90: con un monumento, un museo, una esposizione, una cappella votiva, un piccolo cimitero. La vecchia sede della Dogana Veneziana a Dubrovnik espone in una grande sala le foto di tutti i cittadini croati morti nella difesa della città dagli attacchi serbi. Il più giovane non aveva 18 anni. Questa estate il principale museo cittadino esponeva le immagini della guerra scattate da un fotografo croato, Bozidan Gjukic. Poco importa se le forze serbe abbiano accuratamente evitato di distruggere le mura della città per evitare di provocare danni eccessivi a una città che volevano comunque preservare, l’obiettivo politico è anche di celebrare la recente indipendenza croata. Nel Forte Napoleonico che dall’alto domina l’antica Ragusa, un’altra esposizione permanente racconta di come il luogo sia stato anch’esso terreno di battaglia tra croati cattolici e serbi ortodossi. A Ston e in altre località della regione, sulla strada costiera che porta a Spalato, le lapidi sugli edifici più vecchi ricordano i danni di una bomba o il nome delle vittime. Lo stesso è vero, più a Sud, in Montenegro.  In Bosnia, poi, il ricordo della guerra è ancora più vivido. La strada tortuosa e trafficata che dal posto di frontiera croato-bosniaco di Metkovic porta a Mostar e poi a Sarajevo è segnata da piccoli monumenti funerari costruiti sul lato della via per ricordare la morte di uno o più combattenti. La città di Mostar è un caso a sé. L’antico ponte, costruito alla fine del Cinquecento dai soldati di Solimano il Magnifico, è stato ricostruito (anche con denaro italiano) dopo essere stato parzialmente distrutto dai miliziani croati nel 1993. Anche le case delle viuzze lungo il fiume Narenta sono state restaurate, ma appena fuori dal centro cittadino alcuni edifici sono rimasti inalterati. I danni provocati dai tiri di mitragliatrice o di mortaio sono in bella mostra, suscitando nel visitatore il sospetto che la scelta non sia una coincidenza, piuttosto il desiderio ancora una volta di ricordare la guerra. Quando di recente passaggio in città ho posto la domanda a una guida, la risposta è stata un sorriso complice. Le due comunità di Mostar, quella musulmana bosniaca e quella croata cattolica, vivono tendenzialmente separate, sui due lati del fiume. La convivenza è pacifica, ma sembra fredda, distante, quasi che la pace sia tornata negli anni 90 perché i combattenti erano esausti. Questa estate, il comune della città aveva organizzato in una delle due torri del Ponte di Mostar una piccola esposizione di fotografie della guerra, questa volta di un fotografo neozelandese, Wade Goddard. Nessuno nella ex Jugoslavia ha dimenticato il conflitto fratricida; e tutti vogliono rivendicare la recente indipendenza del proprio paese. In questi anni, il processo di avvicinamento all’Unione Europea ha dato una ragione d’essere ai paesi della regione, e contribuito ad allentare le tensioni comunitarie. Ma l’emergenza immigrazione, e l’arrivo di migliaia di rifugiati dal Vicino Oriente, stanno mettendo a dura prova la convivenza di questi anni. La Slovenia ha minacciato di costruire un muro al confine con la Croazia. La Croazia ha accusato la Bosnia di esortare i migranti a transitare lungo la costa adriatica. La Serbia ha assistito alla costruzione da parte del governo ungherese di una barriera alla frontiera con lo stato magiaro. Il premier sloveno Miro Cerar ha spiegato domenica, riferendosi alla crisi immigrazione: “Se non prendiamo decisioni concrete, credo che l’Europa inizierà a sgretolarsi”. Con un occhio alla storia balcanica, l’avvertimento ha un suono particolare.

(Nella foto, un palazzo di Mostar, ancora crivellato di colpi, nell’agosto 2015)

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