In questi ultimi anni, la produzione di un bene si è straordinariamente parcellizzata. Qualsiasi prodotto finito ormai è composto da parti provenienti da paesi diversi e spesso assemblati in luoghi differenti. L’esempio più noto è quello dell’iPhone. Il telefono cellulare di Apple è ideato negli Stati Uniti, assemblato in Cina e contiene valore aggiunto cinese per il 4%, valore aggiunto europeo per il 16%. Ciò è vero per una lista crescente di prodotti. Nel produrre la Nutella, per esempio, la Ferrero ha la sua sede in Europa, stabilimenti in America e Oceania, e fornitori (di cacao) in Africa. Qualche anno fa – le cose potrebbero essere cambiate nel frattempo – il 10% dei bulloni di una Volkswagen costruita a Wolfsburg era prodotto da una sola società piemontese.
Qualche mese fa, alcuni commentatori italiani avevano accusato la Germania di esportare senza importare, di risparmiare senza consumare, sottolineando l'impressionante attivo tedesco delle partite correnti. Questa settimana un rapporto dell'istituto tedesco IW di Colonia – fatto proprio dall'associazione imprenditoriale europea Business Europe – ha compiuto una analisi precisa dei rapporti commerciali tra i paesi europei. Dai dati relativi al 1999-2013, pubblicati nel volume Industry as a Growth Engine in the Global Economy, emerge che un aumento dell'export tedesco del 10% corrisponde a un aumento dell'export in beni intermedi dei paesi partner del 9%. L'economia tedesca si avvale di componenti prodotti e di servizi offerti dai suoi partner. Mentre la produzione di beni a basso valore aggiunto si delocalizza verso le economie emergenti, i paesi più ricchi si stanno specializzando in prodotti tecnologicamente più avanzati. "In questo contesto l'Italia è un fornitore a basso valore aggiunto, non ad alto valore aggiunto", mi spiegava questa settimana l'economista dell'FMI Jesmin Rahman, in visita a Bruxelles insieme ad altri autori del volume (Helge Berger, Martin Schindler e Antonio Spilimbergo). "Per salire in classifica il paese deve offrire salari competitivi, infrastrutture efficienti, normative semplici". Nel loro volume gli economisti dell'FMI fanno notare come i paesi dell'Europa centro-orientale abbiano fatti grandi progressi in questo campo. Nel solo settore manifatturiero il loro vantaggio competitivo nella produzione di beni ad alto contenuto innovativo è raddoppiato tra il 1995 e il 2008. "La Slovacchia è stata per anni il luogo in cui le imprese automobilistiche tedesche hanno spostato la loro produzione – osserva la signora Rahman -. Il paese è riuscito a diventare un fornitore sempre più attraente quando le aziende slovacche hanno firmato accordi con le case madri tedesche per assumersi nuove responsabilità, anche nel settore dei servizi, che hanno permesso loro di diventare più competitive". In altre parole, non basta – nel caso – accettare salari reali più bassi. Anche chiedere nuove e impegnative mansioni è un modo lungimirante per mantenere nel paese gli stabilimenti produttivi, rendendosi indispensabili e assumendo via via un ruolo globale. Ormai il 60% dell'export dei paesi dell'Europa centro-orientale è fatto di beni intermedi. In un contesto in cui la popolazione europea tende ad invecchiare e la domanda interna a rimanere stagnante, l'export è importante, e la partecipazione alle catene produttive più avanzate diventa in questo contesto un elemento cruciale. A proposito: c'è da chiedersi quanto l'annunciata controversa fusione Fiat-Chrysler possa contribuire a fare dell'Italia un attore più globale.
(Nel grafico tratto da una pubblicazione del Fondo monetario internazionale, i legami commerciali tra i diversi hubs europei)
NB: Dal fronte di Bruxelles (ex GermaniE) è anche su Facebook