La crisi greca che da alcune settimane sta tenendo banco è una crisi economica e finanziaria, ma la chiave di lettura è soprattutto culturale.
Sul fronte opposto c’è proprio la Grecia, oggi governata dal socialista George Papandreou (nella foto tratta da internet). Al di là della deriva del deficit – il disavanzo nel 2009 sarà del 13% – il governo greco ha assistito quasi impotente a un aumento dei costi unitari del lavoro del 40% tra il 2001 e il 2008 e non è riuscito a ridurre il peso di una funzione pubblica tradizionalmente invasiva. Secondo gli ultimi dati di Eurostat, i dipendenti statali sono l’8,3% degli occupati (esclusi i settori della sanità e dell’istruzione) rispetto al 6,2% dell’Italia e al 7,2% della Germania. La presenza nella costituzione greca di una norma (l’articolo 103) che garantisce prerogative giuridiche ed economiche alla funzione pubblica riflette bene le priorità del paese. Non basta: negli ultimi dieci anni la quota delle esportazioni in relazione al prodotto interno lordo è scesa – dal 9 al 7% – mentre in quasi tutti gli altri paesi, grazie all’integrazione economica provocata dall’euro, la percentuale è salita (in Italia al 24%). Ridurre la questione greca a una tempesta finanziaria o a una crisi di fiducia sarebbe sbagliato. La vicenda tocca le fondamenta stesse della zona euro, i suoi presupposti di politica economica, e mette in luce la fragilità dell'unione monetaria.