Nel campo del Remain, vi sono personaggi molto diversi tra loro. Jo Cox, la deputata laburista uccisa giovedì da un nazionalista inglese a Birstall, era appassionata e impegnata. “L’immigrazione – ha scritto sul Yorkshire Post lo scorso 10 giugno – è una preoccupazione legittima, ma non è una buona ragione per lasciare l’Unione (…) Siamo più forti, più sicuri, e staremo meglio se restiamo dentro”. Più freddo è il rappresentante conservatore nella Commissione Juncker, l’ex presidente della Camera dei Lords Jonathan Hill, che la settimana scorsa ha pronunciato un lungo discorso alla Chatham House di Londra tutto dedicato al prossimo referendum sul futuro del suo paese, che si terrà il 23 giugno. Nel suo discorso, ha elencato con abilità tutte le ragioni che dovrebbero spingere a votare contro. I motivi sono tutti economici e finanziari. Le otto pagine che ha letto dinanzi alla Chatham House sono segnate da straordinario pragmatismo. Mancano di qualsiasi slancio emotivo, di qualsiasi passione politica, di qualsiasi profondità storica. Nel suo elenco di freddi motivi per non lasciare l’Unione, Hill ricorda l’importanza di godere dei vantaggi del mercato unico, potendone influenzare le regole; i benefici tratti dalla City di essere il centro finanziario dell’Unione; la possibilità di negoziare alla pari con i grandi partner internazionali. Il realismo è una indubbia qualità. Lo stesso Raymond Aron usava dire: “Plutôt que la passion, la précision et l’exactitude” (Piuttosto che la passione, la precisione e l’esattezza). L’assenza di prospettiva storica è l’aspetto più sorprendente del discorso di Hill, tanto più che potrebbe essere la chiave di lettura del prossimo referendum. Nel cavalcare l’indubbia originalità dell’Inghilterra, gli inglesi e in particolare la classe politica inglese rischiano di perdere di vista quanto la storia del paese sia intrecciata con quella del continente. Prima dello sbarco dei normanni nel 1066, l’Inghilterra non esisteva. E’ stata unificata grazie ai francesi. Nei successivi 10 secoli, il paese ha poi combattuto in tutte le principali guerre del continente. E non perché vi è stata trascinata, ma per interesse politico e comunanza culturale. Ecco una breve lista: la guerra dei cent’anni (1337-1453), la guerra anglo-spagnola (1585-1604), la guerra dei Trent’anni (1618-1648), la guerra dei Sette anni (1756-1763), le guerre napoleoniche (1803-1815), la guerra di Crimea (1853-1856), e naturalmente le due guerre mondiali del Novecento. Il solo conflitto di proporzioni continentali a cui la Gran Bretagna non ha partecipato direttamente è la guerra franco-prussiana del 1870. Al di là dei sondaggi, prevedere il risultato del referendum è molto difficile. Nel suo discorso, Hill ha messo l’accento sul pragmatismo, che è certamente una qualità inglese. Ma le guerre appena elencate non confermano solo quanto la storia inglese sia intrecciata con quella europea. Rivelano anche un’altra caratteristica inglese che proprio il 23 giugno potrebbe far pendere la bilancia verso il Brexit: il coraggio, la prodezza, l’ardimento. In inglese, bravery. Gli inglesi sono prodi: amano affrontare nuove sfide e si innamorano del loro coraggio. Non per altro sono un popolo di scommettitori: la scommessa richiede una certa audacia. In quale altra letteratura europea, la figura dell’uomo impavido ha così tanto peso? Dai cavalieri di Ivanhoe alle avventure di Robin Hood, dai personaggi di H.G.Wells agli eroi di Robert Louis Stevenson, per non parlare dei personaggi di Shakespeare. Non per caso il motto del più influente giornale economico del mondo, il Financial Times, è Without Fear and Without Favour, senza paura e senza cortigianeria. Notava Winston Churchill: “Il successo non è finale, il fallimento non è fatale. Conta solo il coraggio di continuare”. In Giulio Cesare, Shakespeare fa dire all’imperatore rivolto a sua moglie Calpurnia: “I codardi muoiono molte volte prima della loro morte; i valorosi assaggiano la morte soltanto una volta”. Il 24 sapremo quanti inglesi la pensano nello stesso modo.
(Nella foto, una immagine di Winston Churchill accanto a una sua celebre frase pronunciata durante la Seconda guerra mondiale)
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