Chi ha ragione: la formica tedesca o la cicala americana? L’ultimo vertice del Gruppo dei Venti a Toronto si è chiuso con un comunicato salomonico: il deficit pubblico dei paesi del G-20 deve essere dimezzato entro il 2013; mentre il risanamento del debito deve iniziare entro il 2016. Sia la Germania, preoccupata dal crescente indebitamento, che gli Stati Uniti, angosciati da una nuova recessione, possono dirsi soddisfatti per un compromesso che lascia loro margini di manovra e che possono utilizzare per affermare in patria che la loro posizione ha avuto la meglio. La paura tedesca è di assistere a una vampata di inflazione. Un sondaggio di Ernst & Young rivela che in questo paese il 60% delle imprese è preoccupato, molto o abbastanza, da un forte aumento dei prezzi. In libreria, ho contato nove libri scritti nell’ultimo anno da autori tedeschi, tutti dedicati alla crisi e tutti segnati dall’esperienza di Weimar. Ecco alcuni titoli in vendita in questi giorni: E’ la bancarotta dello stato; Ecco l’inflazione; Mercato senza morale; Capitalismo casinò; Arriva la bancarotta dello Stato; La trappola dell'inflazione; Inflazione dinamite; Bancarotta pubblica. Né la Germania né gli Stati Uniti hanno dimenticato il periodo tra le due guerre. Tuttavia, mentre a Berlino l’ossessione è di scongiurare una nuova iperinflazione, a Washington l’ossessione è di evitare una nuova depressione. I disoccupati in fila per un piatto di “minestra popolare” hanno lasciato nella memoria americana la stessa drammatica impronta delle carriole di marchi senza valore negli occhi dei tedeschi.
Difficile in queste circostanze affermare con certezza chi ha ragione. Non mancano anche aspetti culturali. Negli Stati Uniti il debito è per molti versi un indice di imprenditorialità, nello stesso modo in cui il fallimento fa parte delle disavventure della vita ma non è un’indelebile sentenza morale o sociale. Lo stesso non può dirsi in Germania. L’America è convinta di poter evitare i dubbi dei mercati sulla solvibilità dei singoli paesi. Gli Stati Uniti sono ricchi, giovani e soprattutto una vera nazione. La Germania è meno dinamica, invecchia e appartiene a una unione monetaria che purtroppo non è stato, né federazione. L’esperimento europeo è osservato dai mercati con scetticismo. E’ comprensibile che l’establishment tedesco voglia mettersi al riparo, in un paese peraltro dove il risanamento del bilancio è politicamente premiante. Mi rimangono però due dubbi sulla strategia tedesca. Da un lato la scelta di blindare i conti pubblici con una norma costituzionale contro l’indebitamento mentre il paese ha già dovuto rinunciare alla politica monetaria, passata alla Banca centrale europea, comporta non pochi limiti. Dal 2016, quando verrà applicata una norma che limita il deficit allo 0,35% del prodotto interno lordo, la politica economica dipenderà unicamente o quasi dalle poste di bilancio, possibile certo ma impegnativo. Il secondo dubbio riguarda il sistema bancario. Quello tedesco è in pessimo stato, soprattutto a livello di Landesbanken e Sparkassen, oberate da prestiti inesigibili e derivati spazzatura. Circolano stime di possibili svalutazioni per 800 miliardi di euro. Il parallelo con la vicenda giapponese è calzante. L’esperienza del Giappone – anch’esso un paese concentrato sull’export e in crisi demografica – dimostra che uscire da uno sconquasso del credito passa anche da un risanamento del settore bancario, grazie al denaro pubblico. La Germania deve essere pronta a rivedere improvvisamente le sue priorità, se le cose dovessero volgere al peggio.
(Nella foto, sono riconoscibili Silvio Berlusconi, Barack Obama, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy – durante il G20)