La ritrosia italiana a ratificare la riforma del Meccanismo europeo di Stabilità (MES) interpella non pochi partner europei. Mi chiedeva nei giorni scorsi un interlocutore brussellese: “Come è possibile che un paese tentenni ad approvare una riforma che in fin dei conti deve servire ad evitare che i costi di un eventuale salvataggio bancario pesino sui contribuenti?”. L’Italia è l’unico paese a non aver ancora completato l’iter di ratifica.
La riforma, lo ricordo, serve a fare sì che il MES faccia da salvagente al Fondo europeo di risoluzione bancaria. L’obiettivo è di rafforzare questo strumento finanziario, finanziato da contributi bancari, ed evitare che i governi nazionali siano costretti a mettere la mano al portafoglio in caso di crisi creditizia.
Molti a Bruxelles e a Francoforte si chiedono come sia possibile che quest’ultimo argomento non sia premiante in Italia, come altrove in Europa. Dopotutto, ricordano, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è arrivata al potere promettendo di difendere gli italiani dai banchieri predatori e dai pirati finanziari.
Nel mondo politico italiano, c’è chi rifiuta il MES per principio; chi è preoccupato da clausole inserite nella riforma che faciliterebbero eventuali ristrutturazioni del debito; e chi infine vorrebbe (illusoriamente?) che la ratifica avvenisse solo dopo aver strappato una qualche concessione su altri fronti.
Queste preoccupazioni hanno la meglio rispetto alla possibilità, grazie alla ratifica del nuovo MES, di proteggere le finanze pubbliche. Come è possibile, si interrogano in molti a Bruxelles? Proverò a dare una risposta: perché in Italia il denaro dello Stato è ritenuto di nessuno, allorché il denaro delle banche è considerato di tutti.
Mi spiego meglio. In cuor loro, gli italiani più lucidi e più avvisati sanno che molte banche (tutte le banche?) del paese distribuiscono – almeno in parte – linee di credito secondo criteri clientelari e corporativi, con una attenzione limitata al merito economico.
Nessuno, francamente, ha potuto dirsi sorpreso della crisi del Monte dei Paschi di Siena, e nessuno, o quasi, ha protestato per il costosissimo salvataggio pubblico della banca toscana. Lo stesso è avvenuto con altri istituti di credito, in particolare in Veneto nel 2017.
Vi sono state poche proteste perché in fondo nessuno può escludere che in futuro la propria banca incappi in una emergenza simile. Nel paese, il denaro pubblico non è il denaro dei contribuenti, come si usa dire. Piuttosto, è il denaro di nessuno, così come è considerato di nessuno il debito pubblico.
Viceversa, il denaro delle banche è ritenuto denaro di tutti, o meglio denaro proprio. È vero prima di tutto per gli azionisti e gli obbligazionisti delle banche, ma anche per i semplici clienti. Un salvataggio con fondi privati rischierebbe di indurre gli istituti di credito ad aumentare le commissioni e altri balzelli, rivedere i criteri di concessione dei crediti, penalizzare piccole e grandi corporazioni.
In fondo, se questa è la posizione italiana, la scelta di salvaguardare il denaro delle banche rispetto al denaro dello Stato è perfettamente razionale. Peccato che il debito pubblico nasconda una gigantesca evasione fiscale, tenga in ostaggio la politica economica del governo, pesi sulla crescita economica fino a indurre i più giovani a lasciare il paese e, nei fatti, riduca grandemente l’influenza dell’Italia in Europa e nel mondo.