Lonely Planet, la casa editrice che pubblica l'omonima guida turistica, ha appena stilato come ogni anno una lista dei paesi che consiglia di visitare l'anno successivo. Quest'anno all'ottavo posto c'è il Belgio. E' preceduto dal Brasile, l'Antartico, la Scozia, la Svezia, il Malawi, il Messico e le Seychelles. Seguono dopo il Belgio, la Macedonia e la Malesia. Il plat pays viene considerato dalla guida australiana una "gemma sottovalutata". Non c'è dubbio che il Belgio soffra di una immagine ingiustamente grigia. I motivi sono vari: il paese è piccolo; sempre in preda a imbarazzanti spinte secessioniste; messo in ombra dalle ingombranti istituzioni europee che ospita da ormai mezzo secolo; a metà strada tra due vicini più grandi e di cui ha preso in prestito le lingue, la Francia e i Paesi Bassi. Molti francesi continuano a ricordare la definizione di Talleyrand: "I belgi? Non dureranno. Non sono una nazione". Chi si trasferisce in Belgio, pensando che Bruxelles sia semplicemente una appendice meno grandiosa e più triste di Parigi commette un errore. Il piccolo paese ha caratteristiche proprie. Non mi riferisco solo ai musei di Gand o di Bruges, alla casa di Rubens ad Anversa o a quella di Ensor a Ostenda, al beffroi di Tournai o al Castello di Beloeil. Gli italiani amano definirsi creativi, di questi tempi è diventata la parola tra le più usate nella retorica conformista nazionale, ma i piccoli belgi non sono da meno. In fondo, il piccolo regno è il vero paese di frontiera in Europa tra la tradizione germanica e lo spirito latino. Come non fare un legame tra i dipinti di Van Eyck e di Bruegel e le opere di René Magritte e di Paul Delvaux? Le costruzioni di Victor Horta restano incredibilmente moderne a 60 anni dalla morte dell'architetto art-nouveau, un designer antetempo. Le sue case erano dotate delle migliori comodità dell'epoca: divani con il riscaldamento incorporato, cabine-armadi illuminati dalla luce elettrica, e soprattutto un uso limitato del cemento preferendo il ferro alla pietra.
A metà dell'Ottocento, in piena rivoluzione industriale, il Belgio era il secondo paese più ricco del mondo dopo la Gran Bretagna (tanto che ancora oggi Liegi è il terzo porto fluviale d'Europa). La borghesia dell'epoca ne approfittò per costruire eleganti maisons de maître che non hanno nulla da invidiare agli appartamenti haussmaniens di Parigi. Dietro ai muri stretti e slanciati, costruiti in questo modo per evitare di pagare elevate tasse immobiliari calcolate sulla base della grandezza della facciata, si nascondono lunghi salotti, alti soffitti, caminetti e modanature, per non parlare di graziosi giardini. Ancora oggi, la borghesia belga è particolarmente benestante. Basta visitare qua e là le tante brocantes, che riempiono le vie e le piazze delle città il fine settimana, per rendersene conto. Accanto agli inutili rimasugli dei solai, chi vuole può trovare una miriade di piccoli oggetti se non preziosi almeno pregiati o decorativi: dipinti, cartine, foto e statue. Peccato che le tante brocantes, una volta terminate, contribuiscono alla sporcizia di molte città belghe e in particolare di una Bruxelles sorprendentemente démodée. Lonely Planet definisce la stessa cucina belga "una esplosione gustativa", ma si limita a citare il cioccolato, la birra e le frites. Oserei dire che si mangia meglio a Bruxelles che a Parigi, a parità di prezzi e a dispetto di Baudelaire che disprezzava i ristoranti della capitale belga "dove la faro sostituisce il vino…". Mentre in Francia i menù hanno liste di piatti con nomi altisonanti e volutamente misteriosi, in Belgio sono una strizzatina d'occhio continua. Qualche giorno fa in un caffè il nome di un tè era sable émouvant (sabbia non mobile, mouvant, ma commovente). Anche i ristoratori sono dei creativi. D'altro canto, Hergé è il padre di Tintin, ma anche di una cultura del fumetto che ha tra i suoi rappresentanti Spirou, Lucky Luke (sì, il celebre cowboy è belga, non francese), Gaston Lagaffe, Blake et Mortimer, Boule et Bill. Ci sarebbero oggi 650 fumettisti belgi in attività. In fondo, la bande dessinée è il riflesso di un popolo che ha un innato senso dell'umorismo, e una incredibile capacità di giocare con le parole. In quanti altri paesi un orologiaio potrebbe scegliere come nome Collection'heure e un fiorista A fleur de peau? Certo, per un linguista francese, l'uso del verbo savoir anziché pouvoir può urtare, soprattutto quando si giunge al punto di dire "je ne sais pas savoir" – letteralmente "non so sapere" – anziché più semplicemente "je ne sais pas", "non so". Eppure, quando qualche giorno fa in una bella giornata di sole un signore a Bruxelles mi ha spiegato che stavamo vivendo una splendida "arrière-saison", prendendo a prestito dalle espressioni arrière-cour o arrière-goût, ho capito esattamente quello che voleva dire.
(Nella foto, l'iscrizione sul monumento ai diritti dell'uomo eretto nel 1989 al Champs de Mars di Parigi con il nome Bruxelles nelle due pronunce, quella francese che insiste sulla X e quella belga che preferisce una pronuncia più dolce, quasi una doppia SS)
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