Juncker, ritratto di un mediatore del dialogo franco-tedesco – 12/07/13

BRUXELLES – Forse è il destino dei piccoli paesi: garantire all’Europa personalità che vanno oltre le frontiere nazionali. Jean-Claude Juncker, che ieri all’età di 58 anni ha presentato le dimissioni da primo ministro del Lussemburgo sulla scia di un curioso scandalo politico è stato per decenni il trait d’union, il legame tra la Germania e la Francia. Se alle prossime elezioni la sua uscita di scena venisse confermata, Parigi e Berlino dovranno trovare un nuovo indispensabile mediatore.


“L’euro ed io siamo gli
unici sopravvissuti al Trattato di Maastricht”, diceva qualche mese fa ad alcuni
giornalisti. Ironico e sensibile, Juncker ha trascorso sulla scena europea gli
ultimi 18 anni. Ieri ha rimesso il mandato nelle mani del Granduca Enrico, che
ha chiesto qualche giorno prima di annunciare eventuali elezioni anticipate,
possibili già in ottobre. La scelta di Juncker è giunta dopo lo scoppio di una
controversa vicenda che ha visto coinvolti i servizi segreti del Lussemburgo.

Nominato
sottosegretario al Lavoro nel 1982, sette anni più tardi l’uomo politico diventa
ministro delle Finanze. Terrà il delicato portafoglio anche nel 1995, quando
diventa primo ministro. Ai tempi François Mitterrand era ancora all’Eliseo, e
Helmut Kohl governava la Germania da Bonn. Dieci anni dopo è nominato presidente
dell’Eurogruppo. Nel 2012 decide che fare il pendolare con Bruxelles è faticoso,
e l’istinto politico gli suggerisce di tornare a coltivare i suoi elettori.

Dietro
alla scelta c’era certamente il desiderio di prepararsi alle prossime
legislative, allora previste nel maggio 2014, ma anche una evidente stanchezza nel
gestire in piena crisi debitoria gli interessi nazionali e le tensioni
personali di un organismo informale che raggruppa i ministri delle Finanze
della zona euro. Ad Amburgo, nel maggio 2012, criticava con foga la coppia
franco-tedesca: i due paesi, sbottava, “agiscono come se fossero gli unici
membri del gruppo”.

Se non c’è uomo politico che in questi anni abbia lavorato
con così straordinaria costanza per un compromesso franco-tedesco è anche
perché Juncker proviene da un paese che ha radici sia in Germania che in
Francia. Ma forse l’aspetto che più lo ha aiutato sono le sue origini
democristiane. Esponente del partito popolare cristiano-sociale lussemburghese,
l’uomo politico è riuscito a coltivare legami sia con i conservatori tedeschi
che con i socialisti francesi.

Di casa a Parigi come a Berlino, Juncker lo è
stato certamente anche a causa della facilità nel parlare le lingue, a suo agio
sia in tedesco che in francese. “Quando voglio parlare francese, penso in
tedesco; quando voglio parlare tedesco, penso in francese, e alla fine sono
incomprensibile in tutte le lingue”, mormorò alla fine di una faticosa maratona
negoziale. L’autoironia ricorda quella di Henry Kissinger che un giorno disse
di parlare tre lingue, tutte con un accento.

Incomprensibile forse, efficace
spesso, Juncker è stato strumentale nel consentire alla coppia franco-tedesca
di trovare un accordo sul nome da dare alla moneta unica. Kohl aveva rifiutato
l’idea francese di utilizzare Ecu, troppo vicino a Die Kuh, che in tedesco significa mucca. “Posso vivere con il nome
euro, anche se non è molto sexy”, spiegò una sera il premier lussemburghese,
mettendo tutti d’accordo. Juncker riuscì anche a trovare un accordo sulla
nascita dell’Eurogruppo.

Ai tempi, l’allora ministro delle Finanze tedesco Theo
Waigel temeva che l’organismo sarebbe stato il preludio al governo economico voluto
da Dominque Strauss-Kahn, ma tanto osteggiato dalla Germania. “Noi – aveva
detto Juncker a Waigel – che dovremo gestire collettivamente e in modo solidale
la zona euro, dobbiamo poter discutere molto intimamente e molto ferocemente
tra di noi”. A più di dieci anni di distanza, la presa di posizione suona particolarmente
premonitrice.
B.R.