“Alla Germania l’export non basta più” – 07/07/09

BERLINO – I consulenti d'impresa non possono essere pessimisti. Per loro natura devono guardare al presente e al futuro con fiducia. Roland Berger è tra questi. Mentre agli occhi di molti osservatori la crisi attuale, economica e finanziaria, ricorda solo il drammatico crollo di Borsa del 1929 e la Grande Depressione degli anni 30, al più noto consulente europeo torna in mente a sorpresa anche un altro periodo storico, più lontano e più felice: la grande rivoluzione industriale della fine dell'Ottocento.

«Questa crisi comporterà cambiamenti strutturali nell'economia europea, soprattutto in Germania e Italia – spiega il fondatore dell'omonima società di consulenza d'impresa –. In questi ultimi due decenni hanno potuto appoggiarsi su un'economia americana trainata da consumatori ricchi ma sempre più indebitati. Scoppiata la bolla, è probabile che gli Stati Uniti dovranno ridurre investimenti e consumi: per molti paesi votati all'export significherà modificare il proprio modello economico».
«La mia ipotesi – continua Berger, quasi sommessamente – è che le economie più esposte al commercio internazionale dovranno rafforzare la domanda interna, trasformando la crisi in un'opportunità e cavalcando le nuove tecnologie nello stesso modo in cui alla fine dell'Ottocento l'industrializzazione contribuì a una modernizzazione della vita quotidiana e ad un aumento dei consumi. Il momento congiunturale è difficile, non lo nego, ma per la Germania deve essere il pungolo per ripensare drasticamente il proprio sistema economico».
Così, in una manciata di secondi, seduto su un divano dell'Hôtel de Rome, l'altro grande albergo di Berlino (il primo è il celebre Adlon sulla Unter den Linden), Berger sconfessa le cassandre e mette il dito sulla piaga. L'economia tedesca è troppo esposta ai grandi venti del commercio internazionale per rimanere insensibile all'impatto di lungo termine della crisi. Certo, la congiuntura si riprenderà e con essa anche la Germania, ma il riequilibrio delle partite correnti a livello mondiale imporrà cambiamenti di lungo termine.
La Repubblica federale è ormai il più importante esportatore del mondo. Alcune cifre fanno riflettere: le imprese tedesche vendono all'estero ogni giorno merci per quasi 130 milioni di euro; nel 2008 il paese ha esportato per circa 1.100 miliardi di euro, con un saldo commerciale in attivo per 160 miliardi. L'export rappresenta il 48% del Pil tedesco, rispetto a una quota del 40% a metà di questo decennio. Insomma, anche la Germania ha approfittato della grande bolla finanziaria ed economica americana.
«La mia impressione è che se, come probabile, il consumatore americano smetterà di indebitarsi, l'impatto si farà sentire anche nell'industria tedesca, quella dei beni strumentali e delle automobili – prosegue Berger, 71 anni, che vive a Monaco ma è nato a Berlino –. Mi aspetto una frenata della crescita mondiale rispetto al recente passato. L'economia della Germania sarà costretta a rivedere le sue priorità: non potrà più appoggiarsi sull'export, ma dovrà rafforzare la propria domanda interna. E questo è vero anche per l'Italia, votata anch'essa alle esportazioni».
Chi credeva che Cina e Russia, India e Brasile potessero prendere il posto degli Usa dovranno ricredersi, secondo Berger. Almeno in parte, infatti, anche le grandi economie emergenti hanno beneficiato nell'ultimo decennio del boom americano, in un circolo virtuoso che si è rivelato però insostenibile. Riequilibrare il modello tedesco è da molti anni una preoccupazione della Germania. La crisi di questi ultimi mesi ha rimesso la questione drammaticamente al centro del dibattito politico-economico.
Ma come è possibile modificare le tendenze strutturali di un'economia, renderla meno dipendente dalle esportazioni, più forte nel resistere agli shock esterni? Una delle possibilità naturalmente è di optare per una politica demografica. È la scelta francese. In Germania, questa soluzione non ha avuto finora risultati significativi. Risponde Berger: «Non è una questione che sia possibile risolvere a livello governativo. È necessario ripensare l'economia: stimolare i consumi, offrendo nuovi servizi e nuovi prodotti».
A sorpresa la chiave del successo è in un confronto quasi improbabile, certamente sorprendente, con l'Ottocento. Ai tempi, l'industria creò nuovi bisogni domestici: dall'auto all'elettricità, dalle trasmissioni radio all'acqua corrente, dai trasporti ferroviari alle prestazioni sanitarie. Un esempio: gli apparecchi telefonici. Negli Stati Uniti il loro numero balzò da 200mila nel 1890 a 10 milioni nel 1914, uno ogni dieci abitanti (più di quanto ne possedesse l'Unione sovietica nel 1970).
A tempi d'oggi il carbone e l'acciaio sono la biotecnologia e l'informatica. «Sta a noi cavalcarli, creando nuovi prodotti e nuovi servizi – sostiene provocatorio Berger –. Due sono i settori destinati a crescere: l'industria ambientale, per via della crescente attenzione all'ecologia, e la previdenza sociale, a causa dell'invecchiamento della popolazione». Forse non è un caso se proprio l'industria ambientale è uno dei pochi settori a crescere in questo difficile momento: oggi rappresenta l'8% del Pil tedesco e potrebbe salire al 14% entro il 2020.
Stimolare i consumi attraverso nuovi servizi è tanto più necessario in un contesto che vedrà un continuo e graduale trasferimento della produzione industriale dai paesi ricchi alle economie emergenti. In Germania e in Europa rimarranno la ricerca, il terziario e l'industria avanzata, fondata su un forte know-how tecnologico. Nel contempo, l'importanza delle economie di scala per le singole imprese si ridurrà proprio grazie alle nuove tecnologie. Il consulente tedesco, quindi, si aspetta aziende tendenzialmente più piccole rispetto al passato.
Insomma più Google e meno General Motors. È questa la ricetta del fondatore della Roland Berger Strategy Consultants che proprio per aiutare a stimolare la domanda interna, e ridurre l'esposizione della Germania (e dell'Italia) all'export, esorta (provocatoriamente) a un'ulteriore liberalizzazione dei mercati nazionali. La presa di posizione sorprende non poco: dopo che la crisi di oggi è attribuita proprio a un eccesso di deregolamentazione, come è possibile immaginare nuove politiche liberiste in un'Europa sempre più statalista?
«Non credo alla minaccia di un ritorno dello Stato interventista nell'economia – ribatte Berger, smentendo quasi con sottile piacere le opinioni oggi prevalenti –. Gli interventi nel settore bancario sono stati imposti dalle circostanze, e dovrebbero rimanere temporanei. Al contrario, la deriva dei conti pubblici costringerà i governi a privatizzare ulteriormente un welfare state sempre troppo statale, anche se nessuno oggi se lo vuole sentir dire. E questo finalmente creerà un aumento dell'offerta di servizi e una crescita della domanda».
B.R.