L’unanimità stanca: all’ONU la UE sceglie la decisione a maggioranza (ignorando l’Ungheria)

In politica estera vige nell’Unione europea la regola dell’unanimità. Così non è stato il 29 aprile quando i Ventotto hanno voluto prendere posizione nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dinanzi al veto ungherese contro le critiche comunitarie ad Israele, ventisette paesi membri hanno deciso di andare oltre. Si sono accordati su una dichiarazione che è stata letta dal rappresentante diplomatico finlandese. Quello della presidenza rumena dell’Unione non poteva farsi il portavoce di una decisione a 27 piuttosto che a 28.

L’ambasciatore Kai Sauer ha quindi letto la dichiarazione a New York citando nome per nome 27 paesi dell’Unione, e omettendo l’Ungheria. Nel concreto, la dichiarazione ha criticato le “morti palestinesi” nei territori occupati, esprimendo “la viva preoccupazione dell’Unione europea sulle tendenze attuali (…) tali da mettere in pericolo la soluzione basata sulla presenza di due Stati” in Palestina. Il diplomatico finlandese, rappresentante del paese che avrà la presidenza nel secondo semestre dell’anno, ha parlato nei fatti a nome dell’Unione europea.

whatsapp-image-2019-03-19-at-16-42-47-e1553006835404-640x400La vicenda è significativa. Inanzitutto ha messo in luce i legami, le affinità tra Israele e l’Ungheria. Il premier Viktor Orbán non fa passare giorno o settimana senza difendere “i valori giudeo-cristiani”, in contrasto con l’Islam. Allo Stato ebraico l’atteggiamento di Budapest piace. Paradossalmente, Viktor Orbán e il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu sono sulla stessa linea anche per quanto riguarda le critiche a George Soros, l’uomo che ha fatto della società aperta il suo cavallo di battaglia. C’è di più. Tra i paesi dell’Est Europa, Israele è un modello da seguire: paese piccolo e minore, ma forte e influente.

A Bruxelles non è passato inosservata la recentissima scelta ungherese di trasferire nel pieno centro di Gerusalemme l’ufficio commerciale. L’ambasciata rimane a Tel Aviv, a differenza di quella americana, ma la presenza nella città santa è emblematica, tanto più che l’ufficio avrà “uno status diplomatico”. Tre diplomatici ungheresi saranno di stanza a Gerusalemme. L’Ungheria è il primo paese europeo a fare questa scelta controversa, sulla scia della decisione della Casa Bianca di Donald Trump di trasferire la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Lo stesso premier Netanyahu ha partecipato all’inaugurazione a metà marzo.

Diplomatici qui a Bruxelles notano che l’Ungheria blocca tradizionalmente prese di posizione troppo critiche di Israele. Nel caso di fine aprile, la dichiarazione europea letta all’ONU riprendeva nei fatti il linguaggio già utilizzato in passato dai Ventotto. Non è chiaro a tutti perché Budapest abbia optato per una posizione così netta. Fatto sta che i suoi partner hanno deciso di soprassedere e prendere una decisione non all’unanimità, ma alla maggioranza. Non è la prima volta che succede nei fori multilaterali, ma mai con così tanta evidenza e su un tema così delicato.

Il destino vuole che la vicenda abbia avuto luogo mentre la Commissione europea insiste perché anche in politica estera le scelte vengano prese a maggioranza. I più ottimisti vedranno nel caso ungherese un importante precedente, un segnale positivo. In attesa di conferme, nel frattempo è interessante segnalare come la ricerca permanente del consenso a 28 sia spossante, e come sia elevata l’insofferenza nei confronti della mancanza di disciplina tra gli stati membri. Chi ha partecipato alle riunioni diplomatiche preparatorie ha potuto notare toni aspri da parte di molti paesi membri nei confronti dell’Ungheria.

(Nella foto, il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó e il premier israeliano Benjamin Netanyahu in occasione dell’apertura di un ufficio commerciale ungherese a Gerusalemme il 19 marzo 2019 – Copyright: Amos Ben Gershom/GPO)

  • habsb |

    Sembra incredibile che gli stati europei sentano il bisogno di occuparsi della questione palestinese, già sostenuta dalle ricchissime nazioni musulmane, e non spendano neanche una parola per la simile ma ben più grave questione tibetana, che nessuno difende dal 1950.

    Certo attaccare Gerusalemme è meno rischioso che attaccare Pechino, ma son proprio queste tipiche assenze di coraggio a rendere poco credibile il progetto di un’Europa che vorrebbe essere più che un protettorato di Washington

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