Per la prima volta, i Ventisette hanno fatto uso questa settimana di un nuovo strumento giuridico, messo a punto nel dicembre scorso, che permette loro di sanzionare a tappeto paesi che violano i diritti umani. Con un pacchetto di sanzioni che hanno preso di mira 11 persone e quattro entità in cinque paesi, l’Unione europea ha punito Cina, Russia, Sud Sudan, Eritrea e Libia, in nome di un regime sanzionatorio che colpisce paesi responsabili di genocidio, crimini contro l’umanità, e altri abusi o violazioni dei diritti umani.
La decisione ha provocato la viva reazione del governo cinese, che ha imposto ritorsioni. In un comunicato da Pechino, il ministero degli Esteri ha spiegato: l’Unione europea “deve smetterla di dare lezioni agli altri sui diritti umani e di interferire nei loro affari interni. Deve porre fine all’abitudine ipocrita del due pesi-due misure e smetterla di andare avanti sulla strada sbagliata. Altrimenti, la Cina prenderà risolutamente ulteriori decisioni”.
La presa di posizione di Pechino può apparire criticabile. Nello Xinjiang le repressioni del governo cinese contro la comunità uigura, di religione musulmana, durano da anni, segnata da uccisioni arbitrarie e da campi di prigionia. Ma bisogna chiedersi se la scelta dei Ventisette di fare politica estera in nome dei diritti umani non possa rivelarsi in fin dei conti dannosa e pericolosa.
Prima di tutto dannosa. Non è forse contradditorio e incoerente punire violazioni dei diritti umani firmando nel contempo contratti commerciali e accordi internazionali? Che senso ha imporre sanzioni contro la Cina, e al tempo stesso siglare un accordo dedicato agli investimenti? C’è il desiderio di rendere il regime cinese più democratico, certo. Ma perché a colpi di misure sanzionatorie, piuttosto che eventualmente con il dialogo politico e l’influenza economica? Il mio timore è che a rischio possa essere la credibilità dell’Unione.
In secondo luogo, temo che la scelta sia anche pericolosa. La Cina protesta per l’ingerenza nei suoi affari interni. Avrebbe potuto anche ricordare che non tutti i paesi del mondo hanno vissuto l’esperienza del Secolo dei Lumi o della Rivoluzione francese. Ciascuno Stato ha le proprie tradizioni, culture, retaggi. In questo frangente, la politica estera europea non appare troppo dissimile dai tentativi militari del presidente George W. Bush, tanto criticati in Europa, di esportare la democrazia occidentale in Iraq o in Afghanistan.
Inoltre, le sanzioni decise lunedì sono terribilmente selettive. I ministri degli Esteri dei Ventisette hanno fatto una scelta: hanno colpito la Cina e la Russia, ma non l’Egitto o l’Arabia Saudita; la Libia e il Sud Sudan, ma non la Repubblica democratica del Congo o lo Zimbabwe. La politica estera dell’Unione si vuole etica, ma rischia di apparire drammaticamente ingiusta e faziosa, agli occhi dei paesi colpiti.
Vi sono poi circostanze in cui la stessa Europa è in difetto. La Turchia è criticata in questi giorni per aver abbandonato la Convenzione di Istanbul, un testo del Consiglio d’Europa che condanna la violenza contro le donne. Peccato che sei paesi dell’Unione europea non abbiano mai ratificato la stessa convenzione, che risale al 2011: Lituania, Lettonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Più in generale, quanto è lecito per l’Unione difendere i principi democratici nei paesi terzi quando alcuni suoi stessi paesi membri non rispettano i trattati europei?
Capisco il desiderio umanitario di difendere minoranze e oppositori da repressioni e violenze. Mi chiedo però se molti governi europei non siano ostaggio delle pressioni emotive della loro pubblica opinione, fino a dimenticare la massima di un lontano primo ministro inglese, Lord Palmerston (1784-1865): “Non abbiamo alleati eterni o nemici perpetui. Sono i nostri interessi ad essere eterni e perpetui”.
(Nella foto tratta dal sito del governo cinese, Hua Chunying, la portavoce del ministero degli Esteri a Pechino in occasione della sua conferenza stampa quotidiana)