Nel 2017, in un ormai noto discorso alla Sorbona, il presidente francese Emmanuel Macron parlò di sovranità europea. Molti allora lo ascoltarono con prudenza, cautela, se non scetticismo. A tre anni di distanza, gli elementi di una possibile sovranità europea si stanno moltiplicando in una Europa che deve fare i conti con una perdurante epidemia influenzale, uno shock economico con pochi precedenti, nuove crisi internazionali nel vicinato e naturalmente Brexit.
La premessa è che sulla scia dell’uscita della Gran Bretagna dalla costruzione comunitaria stanno scomparendo, stanno scemando le tradizionali differenze tra l’unione monetaria a 19 e l’Unione europea a 27. Alcune scelte simboliche sono passate quasi inosservate in questi ultimi mesi. Le prime riguardano la Banca centrale europea, non più banca della sola zona euro.
Nel Consiglio europeo che si tenne in marzo, i leader dei Ventisette – non soltanto i leader della zona euro – hanno “sostenuto l’azione risoluta della Banca centrale europea” nel reagire allo shock economico provocato dalla pandemia influenzale. Sarebbe stato possibile con il Regno Unito, geloso della sua secolare moneta e dello storico ruolo della Banca d’Inghilterra, intorno al tavolo? Non credo.
La presa di posizione di marzo ha autorizzato la presidente dell’istituto monetario Christine Lagarde ad intervenire pubblicamente durante il vertice europeo di fine luglio dedicato al prossimo bilancio comunitario per esortare i Ventisette – non soltanto i leader della zona euro – a trovare una intesa. Sempre a proposito della BCE: per la prima volta nei giorni scorsi, l’istituto monetario è intervenuto durante il tradizionale seminario tra i commissari che la Commissione europea organizza al ritorno dalla pausa estiva.
Altre scelte simboliche riguardano, per esempio, la libera circolazione delle persone. I paesi membri dell’Unione europea (in tutto 27) non corrispondono ai paesi membri dell’Area Schengen (in tutto 22), ma ormai formalmente le differenze tra le due entità politiche e geografiche si stanno stemperando; certamente nel discorso pubblico e nella pubblicistica, ma anche a livello istituzionale.
A proposito della riapertura delle frontiere esterne ai paesi terzi dopo il confinamento della primavera, le riunioni a livello diplomatico prima della pausa estiva si sono svolte a 27. Vi hanno partecipato anche paesi che non appartengono all’Area Schengen – l’Irlanda, la Croazia, la Bulgaria, Cipro, e la Romania. Ne è scaturita una raccomandazione del Consiglio, non dei paesi dell’Area Schengen. Lo stesso sta avvenendo in questi giorni mentre i paesi stanno discutendo una possibile armonizzazione delle regole relative alle quarantene o ai test di depistaggio.
Nel contempo, per la prima volta, i paesi dell’Unione europea si stanno dotando di un embrione di politica economica e industriale, accettando che la Commissione europea si indebiti sui mercati finanziari per 750 miliardi di euro. Le differenze di approccio rispetto alla crisi del 2008 sono evidenti. Certo i piani dedicati al rilancio economico restano nazionali, ma il denaro che li finanzierà è comune e i singoli progetti verranno approvati a livello comunitario secondo linee-guida europee.
Intanto, avanza inesorabilmente, tra molte difficoltà, il dibattito pubblico su una qualche forma di armonizzazione fiscale. La presenza di grandi imprese digitali capaci di eludere l’imposizione a livello nazionale sta inducendo i Ventisette a riflettere a forme di tassazione comunitaria. Alla stessa discussione contribuisce la necessità di rimborsare i 750 miliardi di euro che la Commissione europea prenderà a prestito sui mercati nei prossimi mesi.
Stiamo assistendo a un processo lungo e complesso di giustapposizione tra Unione europea, Area Schengen e zona euro. L’esito è incerto, ma la tendenza non è banale, perché in fondo lo spazio di circolazione delle persone, la politica monetaria, la politica economica, la politica industriale, la politica fiscale, la politica commerciale, la politica sanitaria (i 27 hanno dato mandato alla Commissione europea di negoziare con i produttori di vaccini l’acquisto di un lotto comunitario) sono tutti elementi formativi di una qualche forma di sovranità.
E’ vero che il termine sovranità non piace a molti. Troppo carico di significato. (Secondo il vocabolario Zingarelli per sovranità si deve intendere “il potere supremo di comando a livello statale”). I paesi baltici sono preoccupati dal perdere la loro recente indipendenza; l’Ungheria e la Polonia hanno fatto del nazionalismo uno strumento politico; i paesi scandinavi temono nuove forme di dirigismo economico.
Eppure, le scelte pratiche non certo banali che ho appena elencato riflettono in fondo la consapevolezza nelle file degli establishments nazionali di come, lasciando l’Unione, il Regno Unito si illuda di ritrovare la propria sovranità (Global Britain, dicono i brexiteers). È sempre più chiaro che il paese, nonostante straordinarie doti, rischi di essere in balia di attori più grandi, più potenti e magari più spietati.
(Nella foto, il presidente francese Emmanuel Macron, oggi 42 anni, alla Sorbona nel 2017)