Vi sono paesi in Europa che possono essere la spia di nuove tendenze europee. Uno di questi è il Belgio. Da anni, ormai, il piccolo regno è un esempio di come il regionalismo possa mettere in dubbio l’esistenza stessa dello Stato. Da tempo – prima dell’Italia, prima della Spagna, prima della Gran Bretagna – il Belgio, spaccato tra un Sud francofono e un Nord neerlandofono, è alle prese con il rischio più o meno concreto di disintegrazione. In questi giorni, il paese dibatte invece di due questioni molto attuali: la sicurezza e l’economia. Complice la perdurante crisi economica e la grave incertezza politica, in tutti i paesi non mancano uscite controverse e dibattiti accesi, che mettono in dubbio il futuro dei principi democratici. A sorprendere nel caso belga è forse che le proposte radicali giungano dalla maggioranza al governo, non dai partiti all’opposizione. Nel corso del fine settimana, il partito automomista fiammingo N-VA ha illustrato un giro di vite nel campo della sicurezza, a sei mesi dai terribili attentati islamisti che hanno colpito Bruxelles. La N-VA ha proposto di creare un livello di emergenza ulteriore rispetto ai quattro livelli attuali. Nel caso di livello 5, sarebbe proclamato lo stato di emergenza (sulla falsariga di quanto avviene in Francia). In questo caso, la detenzione preventiva da parte della polizia sarebbe oggetto di un controllo della magistratura solo ex post. I tribunali sarebbero dotati di corti speciali per i crimini terroristici, mentre la polizia locale avrebbe prerogative particolari. Il leader del partito Bart De Wever ha assicurato che le sue proposte sono in linea con la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Interpellato sull’iniziativa della N-VA, suo alleato al governo, il premier liberale francofono Charles Michel ha commentato che le proposte possono essere discussse purché venga rispettato lo stato di diritto. Qualche giorno prima a esprimersi in modo controverso era stato il leader del partito liberale francofono MR, Olivier Chastel. Nodo del contendere questa volta l’annuncio della società americana Caterpillar di voler chiudere il suo sito nella regione di Charleroi per trasferirsi a Grenoble, in Francia. A rischio sono circa 6.000 posti di lavoro (tenuto conto dell’indotto) in una località già in difficoltà dopo la chiusura alla fine del secolo scorso delle miniere di carbone. Chastel ha proposto di requisire d’autorità il terreno che ospita il sito industriale: “Bisogna utilizzare tutte le vie legali perché ridivinti un sito di interesse pubblico”, ha spiegato. Non è chiaro se la proposta riguardi il terreno o anche lo stabilimento. Il liberale Chastel non vuole comunque che Caterpillar finanzi la ristrutturazione della sua filiale belga con la vendita delle sue infrastrutture belghe, ed è pronto all’esproprio. Il Belgio ha già subito in questi anni la chiusura di alcuni stabilimenti appartenenti a importanti gruppi internazionali: Arcelor-Mittal a Liegi o Renault a Vilvoorde. L’annuncio di Caterpillar ha provocato grande emozione in questo paese dove la disoccupazione è all’8,5% della popolazione attiva. Di recente, ad annunciare licenziamenti è stato anche il gruppo assicurativo francese AXA. Le due vicende sono sinotomatiche di una evidente difficoltà a governare in modo democratico. Impotente nel gestire le tante crisi di questo momento, la classe politica belga non esita a proporre misure discutibili, a flirtare con scelte che ad alcuni potrebbero ricordare un regime autoritario più che un governo democratico. Resta da capire se queste proposte siano soltanto dei ballons d’essai o un modo per ribattere alle proposte dei partiti all’opposizione, come quelle marxiste-leniniste sul fronte economico del Parti du Travail de Belgique (PTB), che nei sondaggi raccoglie ormai il 14% delle intenzioni di voto in Vallonia.
(Nella foto, Bart De Wever, 45 anni, presidente del partito autonomista fiammingo N-VA)
NB: Dal fronte di Bruxelles (ex GermaniE) è anche su Facebook