Molti penseranno che nell’organizzare una fastosa ricostruzione della Battaglia di Waterloo le autorità belghe abbiano voluto ricordare i duecento anni della fine dell’impero napoleonico. Altri sosterranno che è stato il tentativo spregiudicato di fare di una commemorazione storica una manifestazione turistica. Altri ancora, con malizia, si chiederanno se il Belgio non abbia sottilmente stuzzicato l’amor proprio francese, ancora malmenato dalla sconfitta dell’imperatore. In realtà, con le celebrazioni organizzate in quella che Victor Hugo definì «una piana desolata», il Belgio ha anche celebrato se stesso.
Poco importa, agli occhi di molti belgi, se il Congresso di Vienna stabilì che l’attuale Belgio sarebbe diventato olandese. Se il piccolo Paese vide la luce quindici anni dopo, nel 1830, è perché bisognava isolare la sempre minacciosa Francia con uno stato-cuscinetto su cui continua a pesare il giudizio di Talleyrand: «Duecento protocolli non ne faranno mai una nazione». Mentre non passa giorno senza che il Paese debba fare i conti con le sue divisioni linguistiche, i suoi contrasti comunitari, Waterloo è una occasione per celebrare una difficile unità nazionale.
«La Battaglia di Waterloo – spiega Etienne Claude, direttore dell’ente chiamato a organizzare le celebrazioni di questo mese – è la culla dell’Europa moderna e una delle chiavi dell’esistenza del Belgio. Senza Waterloo non avremmo il Belgio, come lo conosciamo oggi». Le autorità hanno organizzato nei giorni scorsi una ricostruzione dei sanguinosi avvenimenti di due secoli fa su un periodo di tre giorni, dal 18 al 20 giugno. All’appello c’erano 6mila figuranti, 100 cannoni, 300 cavalli, 3.500 chili di polvere da sparo.
In questi mesi, il Paese ha vissuto al ritmo delle celebrazioni. Il quotidiano «La Libre Belgique» ha dedicato ogni settimana una pagina agli avvenimenti del 1815. La rete televisiva nazionale Rtbf ha appena trasmesso in prima serata una serie di documentari storici. Le librerie sono state rifornite di vecchie e nuove biografie di Napoleone, così come di precisi resoconti della battaglia. A Waterloo, i musei sono stati ristrutturati e ammodernati. La coreografia è stata preparata nei suoi minimi dettagli, anche perché erano attesi più di centomila spettatori.
«Semplice divertissement», ha dichiarato non senza ragione Anne Morelli, professore dell’Université Libre de Bruxelles. Ma c’è anche, soprattutto nella parte francofona del Paese ma anche in quella fiamminga, il desiderio di cavalcare il significato politico di Waterloo. Curiosamente, lo fecero persino i tedeschi nel 1914 quando in un appello alla popolazione belga giustificarono l’invasione del piccolo regno «ricordando i giorni gloriosi di Waterloo quando gli eserciti tedeschi contribuirono a fondare l’indipendenza e la prosperità» del Paese.
Gli ultimi mesi sono stati l’occasione per il Belgio di ricordare quanto il Paese debba al periodo napoleonico, tanto ai successi di Bonaparte quanto alla sua ultima disfatta. Dall’imperatore, il Paese ha ereditato tra le cose il codice civile e il liceo. Bruxelles, in particolare, gli deve la salvaguardia del Castello di Laeken, oggi residenza della famiglia reale, che ai tempi stava rischiando il degrado, ma anche il restauro del Théâtre de la Monnaie. Più in generale, in un Paese che stenta a distinguersi dai suoi vicini linguistici, Francia e Olanda, che tendono ad assorbire le glorie belghe, Waterloo per la sua localizzazione geografica è parte indiscutibile del patrimonio nazionale.
Ciò non significa però che la battaglia del 1815 non sia stata nei secoli fonte di contrasti tra francofoni e fiamminghi. Voluto da Guglielmo I d’Olanda per celebrare la vittoria di inglesi, olandesi e prussiani contro la Francia, il leone di bronzo che sovrasta la pianura su una collina artificiale rischiò nel 1832 la distruzione. Ritenendolo una offesa contro la Francia, un deputato vallone, Alexandre Gendebien, volle convincere il nuovo Parlamento belga di demolirlo. Senza successo. «Le Belge», un giornale dell’epoca, francofono per di più, scrisse: «I monumenti sono dei libri di storia all’uso dei popoli. Rispettateli se volete fondare una nazione».
In questo senso va capito il desiderio delle autorità belghe di coniare una moneta per ricordare il centenario della battaglia. Tre mesi fa, il governo belga chiese ai suoi partner europei l’autorizzazione di poter creare una moneta da due euro. Ancora ferita dalla sconfitta, la Francia si oppose; ma da allora l’ingegno belga ha avuto la meglio. Il ministero delle Finanze si è ricordato di una norma europea che consente a qualsiasi Paese di coniare monete purché abbiano un valore irregolare. La zecca belga ha quindi coniato centomila monete celebrative, da due euro e mezzo l’una.
In fondo a poco meno di duecento anni dalla sua fondazione e nonostante una retorica secessionista al Nord e slogan regionalisti al Sud, il Belgio ha una sua vena nazionalista. Incredibilmente, sia valloni sia fiamminghi si riconoscono insieme negli edifici Art nouveau di Victor Horta, nei dipinti di James Ensor e di Jan Van Eyck, nel surrealismo di René Magritte, nei romanzi di Georges Simenon, nei fumetti di Hergé e Edgar P. Jacobs, nelle canzoni di Jacques Brel. E in una battaglia di due secoli fa nella quale soldati belgi combatterono sui due fronti e il cui teatro naturale è protetto da una legge del 26 marzo 1914 approvata con 95 voti a favore, cinque contro e tre astensioni.