A Bruxelles e in altre capitali europee ci si continua a interrogare su Donald Trump e sulle sue reali intenzioni. C’è chi spera in un atteggiamento progressivamente meno radicale, chi pensa già a qualche forma di accomodamento con la nuova amministrazione americana, e chi non si fa troppe illusioni sul futuro dei rapporti transatlantici.
Al netto delle sue astrusità, dei suoi eccessi e dei pericoli che potrebbe far correre al mondo, il nuovo presidente riflette in fondo alcune tendenze di lungo periodo che nei secoli hanno attraversato la società americana.
Ricorderò tre aspetti: la politica estera, la politica commerciale e i costumi.
Sul primo fronte molto è stato già scritto sugli obiettivi dichiarati da Donald Trump di riprendere il controllo del Canale di Panama, di annettere il Canada, di occupare la Groenlandia.
Non sappiamo come e se le sue intenzioni si concretizzeranno. Sappiamo però che gli Stati Uniti sono nati, espandendo la sua zona di influenza, dalla Dottrina Monroe in poi. La Louisiana è stata acquistata dai francesi nel 1803, l’Alaska dai russi nel 1867. Molti stati del Sud furono inglobati nella federazione a seguito di una guerra contro il Messico. Le isole Hawaii sono territorio americano dal 1898 quando Washington contribuì alla caduta della monarchia che governava l’arcipelago.
I desideri di espansione territoriale di Donald Trump all’alba del XXI secolo possono sorprendere molti europei, ma sorprendono assai meno molti americani.
Più interessante è l’aspetto commerciale. Fin dalla nascita del paese si sono confrontate due linee. Da un lato Thomas Jefferson, presidente dal 1801 al 1809, che credeva fermamente al libero scambio. Nato in Virginia, l’uomo politico voleva soprattutto favorire le esportazioni agricole del Sud del paese.
Dall’altro, c’era Alexander Hamilton, segretario al Tesoro dal 1789 al 1795, il quale propugnava una politica protezionistica per permettere la nascita di una solida base industriale nel Nord del Paese. Per lunghi anni ebbe la meglio quest’ultima linea, tanto che progressivamente i dazi furono aumentati fino a toccare il 47% nel 1861.
La stessa Guerra di Secessione (1861-1865) fu scatenata dalla scelta della Carolina del Sud di non adottare i dazi commerciali decisi a Washington. Il dibattito tra protezionisti e liberi-scambisti ha continuato a segnare gli ultimi decenni americani.
Tra i due conflitti mondiali la legge Hawley-Smoot del 17 giugno 1930 impose una tassa del 59% a oltre 3.200 prodotti importati, nonostante l’opposizione dell’industriale Henry Ford. Più recentemente mentre Ronald Reagan non esitava a maneggiare le quote commerciali, Bill Clinton cavalcava il libero scambio.
Infine, l’ultimo aspetto riguarda quello dei costumi. Nei giorni scorsi il nuovo presidente ha spiegato che “secondo la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti esistono solo due generi: il maschile e il femminile”. Respingendo le politiche LGTB, l’uomo politico ha anche fatto campagna contro il diritto all’aborto.
A questo proposito curiosamente celebriamo quest’anno il centenario di un processo che si tenne nel 1925 nella cittadina di Dayton, nello stato del Tennessee.
Sul banco degli imputati c’era un professore di scuola, John Scopes, accusato di insegnare in classe la teoria dell’evoluzione, violando la legge. Contrastata ai tempi dalla Chiesa, la teoria di Charles Darwin afferma che tutte le forme di vita sulla Terra si sono sviluppate gradualmente da antenati comuni attraverso un processo di modificazione delle specie.
Il processo ebbe grande eco in tutto il paese. L’accusa era nelle mani di un ex segretario di Stato del partito democratico, William Jennings Bryan, mentre l’avvocato della difesa era Clarence Darrow, tra i più noti giuristi di quel periodo.
In un libro appena uscito negli Stati Uniti (Keeping the Faith: God, Democracy, and the Trial That Riveted a Nation, 509 pp. Random House, New York) Brenda Wineapple racconta come il processo tenne con il fiato sospeso l’intero paese.
D’altro canto, il procedimento metteva in scena un Kulturkampf, direbbero i tedeschi, una guerra culturale, tra gli abitanti delle metropoli, laici e cosmopoliti, e i residenti nelle campagne, più religiosi e conservatori.
In camera di consiglio i giudici stabilirono la sentenza in appena nove minuti: condannarono Scopes (aveva dopotutto violato la legge), ma imponendogli una multa di appena 100 dollari.
È trascorso un secolo dal processo che si svolse a Dayton, ma la società americana continua a spaccarsi sui temi sociali. Sottolinea Adam Hochschild sulla New York Review of Books: “Le guerre culturali sono provocate dalla paura di perdere terreno”, dinanzi ai cambiamenti della società ritenuti minacciosi (l’immigrazione, la disoccupazione, le rivendicazioni femminili e più in generale la perdita di potere d’acquisto).
Insomma, a ben vedere Donald Trump non è estraneo alla cultura profonda del suo paese. Riflette tendenze che da decenni segnano la società americana, naturalmente a modo suo. Nel valutare le sue mosse nei prossimi mesi, bisognerà tenerne conto.
(Nella foto tratta da Internet un momento del processo Scopes, nel 1925)