Di questi tempi, il governo britannico non manca di sorprendere i propri vicini dell’Europa continentale. Nel giro di qualche giorno ha presentato un testo legislativo che nei fatti, se approvato da Westminster, consentirà alle autorità britanniche di violare l’accordo internazionale firmato con Bruxelles e relativo alla gestione della frontiera nell’Ulster. Nel contempo, ha negoziato con il Ruanda una intesa che permette al Regno Unito di trasferire nel paese africano i richiedenti asilo arrivati illegalmente in Gran Bretagna.
La prima decisione ha scatenato la viva reazione di Bruxelles che ormai minaccia velatamente sanzioni commerciali contro Londra nell’ambito dell’accordo sull’uscita del paese dall’Unione europea. La seconda scelta ha lasciato sgomenti molti paesi occidentali, anche se nel frattempo i numerosi ricorsi presentati davanti alla magistratura britannica hanno bloccato sulla pista dell’aeroporto di Boscombe Down (Sud-Ovest dell’Inghilterra) un primo volo carico di migranti diretto verso il Ruanda.
Le convenzioni internazionali stabiliscono che ai richiedenti asilo dovrebbe essere garantita protezione individuale, finché il loro status non è stato finalmente deciso dalle autorità nazionali. Incredibile ma vero: il paese della Magna Carta del 1215 e dell’Habeas Corpus del 1679, lo Stato che durante la Seconda guerra mondiale da solo si è opposto coraggiosamente alla dittatura hitleriana mette clamorosamente in dubbio i più ovvii principi democratici.
È facile imputare queste incredibili scelte a Boris Johnson. Non vi sono dubbi sulle responsabilità dell’attuale controverso primo ministro conservatore. Al tempo stesso, due recenti libri di storia inglese contribuiscono ad allargare lo sguardo: Slave Empire: How Slavery Built Modern Britain di Padraic X. Scanlan (2020) e Empireland: How Imperialism Has Shaped Modern Britain, di Sathnam Sanghera (2021).
Il primo volume mette in luce quanto la Gran Bretagna si sia arricchita con la tratta degli schiavi. Alla fine del Settecento, un mercante di uomini poteva incassare una rendita annua del 9,5%, oltre il doppio rispetto all’apprezzamento di una proprietà immobiliare in Gran Bretagna, percepito da un classico rentier. C’è di più. Le piantagioni di zucchero nelle Barbados e in Giamaica provocarono un fortissimo aumento del contributo del commercio all’economia britannica, passato dal 4% nel 1700 al 40% nel 1770.
L’arricchimento della popolazione bianca a tutti i livelli contribuì a una società particolarmente classista. Scrive Padraic X. Scanlan: “Il commercio fece l’impero; la schiavitù fece il commercio”. La premessa è interessante perché consente di analizzare il modo in cui gli inglesi tuttora guardano al loro passato coloniale. Secondo Sathnam Sanghera, il paese ignora o fa finta di ignorare come nei secoli la Gran Bretagna abbia sfruttato alcune colonie fino all’osso. Dall’India, per esempio, gli inglesi hanno prosciugato risorse fino a 45 mila miliardi di dollari tra il 1765 e il 1938. Per non parlare delle molte atrocità commesse, in Asia e in Africa.
Eppure, ancora oggi l’establishment britannico parla dell’impero con incredibile orgoglio e sorprendente spocchia. Nel 1872, il premier Benjamin Disraeli definiva l’India “un costoso gioiello” per le casse del Tesoro inglese. Più recentemente, nel 2005, un altro premier, il laburista Gordon Brown, notava che alcune delle “più grandi idee” della Storia erano giunte dall’impero britannico. Qualche anno dopo, nel 2013, un suo successore, il conservatore David Cameron, riteneva che gli inglesi dovessero andare “fieri dei successi registrati dall’impero britannico”. Più recentemente, dopo l’uscita dell’Unione europea, gli inglesi hanno cavalcato l’idea di una Global Britain.
Mentre le altre potenze ex coloniali – dalla Germania alla Francia – sono alle prese con un esame di coscienza sui loro misfatti passati e sul loro rapporto con gli indigeni, spesso immigrati in Europa, la Gran Bretagna continua a fondare il proprio discorso pubblico sugli innegabili successi nelle due guerre mondiali del XX secolo, sull’eroismo personale di alcuni e il sacrificio nazionale di tutti. Il tutto condito da una malcelata immodestia. Il risultato è che a Londra un premier è capace nel giro di pochi giorni di calpestare, come se niente fosse, alcuni dei principi di diritto internazionale che il suo paese in passato aveva esso stesso contribuito a creare.
(Nella foto, tratta dal sito www.lexpress.fr, il primo ministro conservatore Boris Johnson, 57 anni)