BERLINO – Qualche anno fa uscì in Germania un libro di un sociologo di Tubinga. Il titolo era volutamente provocatorio: Typisch deutsch – Wie deutsch sind die Deutschen? (Tipicamente tedesco – Quanto tedeschi sono i tedeschi?). Nel volume, Hermann Bausinger tenta di rileggere molti degli stereotipi di un popolo che nel grande armamentario dei luoghi comuni europei è considerato un appassionato di meccanica, un mangiatore di salsicce, un bevitore di birra, ordinato, disciplinato e un po’ noioso. Bausinger fa quindi un’analisi del carattere nazionale, smentendo alcuni clichés e soprattutto sottolineando differenze e varietà.
D’altro canto, non potrebbe essere altrimenti. L’ondata migratoria del secondo dopoguerra, l’arrivo nel Paese di milioni di musulmani, l’unificazione del 1989, l’avvento nelle posizioni di responsabilità di una generazione nata dopo la guerra hanno modificato radicalmente i punti di riferimento, le abitudini e le idiosincrasie. Come reagirebbe August Sander, fotografo dei suoi contemporanei nei primi anni del Novecento, alla presenza di giocatori neri nella squadra nazionale di calcio? Al successo del Döner Kebap, quasi più amato del Wurst? O alle quasi duecento moschee, con tanto di cupola e minareto, seminate in tutto il Paese?
Mentre in Francia si parla di nation, nazione, in Germania si preferisce parlare di Volk, popolo. A Berlino il Reichstag è dedicato «al popolo tedesco» (dem deutschen Volk). Nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro di Berlino, i cittadini della Ddr dicevano: «Wir sind das Volk (siamo il popolo)». Dopo l’unificazione, lo slogan è diventato: «Wir sind ein Volk (siamo un popolo)». In tempi più bui, durante il nazismo, il motto era: «Ein Volk, ein Reich, ein Führer (un popolo, un impero, una guida)».
Forse questa differenza con la Francia è inevitabile per un Paese le cui frontiere sono cambiate di continuo negli ultimi secoli. Per rendersene conto basta entrare nel Deutsches Historisches Museum di Berlino. Una grande cartina geografica dell’Europa accoglie il visitatore nell’atrio dell’ex armeria reale sul viale Unter den Linden. Sullo schermo multicolore, i confini tedeschi si allargano e si restringono, come una fisarmonica nelle mani di un musicista, seguendo le peripezie della storia. In una Germania dal territorio drammaticamente incerto e mutevole, l’identità tedesca è dipesa non tanto dalla geografia, quanto dalla lingua in comune e dai legami di sangue.
La lingua prima di tutto. In quanti altri Paesi i Dichter und Denker, i poeti e i pensatori, sono oggetto di culto popolare? Non è un caso se oggi Marcel Reich-Ranicki, un temibile recensore di romanzi, sia tra le personalità più amate dai tedeschi. Nel 1839 venne innalzata a Stoccarda una statua di Friedrich Schiller, finanziata con una grande colletta pubblica. Vent’anni dopo, oltre cinquecento città tedesche celebrarono il centenario della nascita del poeta con fastose manifestazioni. Ai tempi, la Germania moderna ancora non esisteva ma il sentimento nazionale era già vivo.
Il sangue poi. All’epoca di Guglielmo II le gerarchie sociali erano chiare. Operai, impiegati e contadini – la «piccola borghesia», come la chiama Johannes Willms in Die deutsche Krankheit (La malattia tedesca) – erano governati da Junker, proprietari terrieri spesso militari di carriera, che dominavano la società, insieme alla borghesia industriale dei Krupp e dei Thyssen, degli Schenker e degli Stinnes. Soprattutto: la nazionalità tedesca dipendeva da una legge del 1913 che garantiva la cittadinanza solo a chi era nato da padre o madre tedeschi, sulla base quindi dello ius sanguinis.
La parentesi della Repubblica di Weimar, tra il Reich di Guglielmo II e la dittatura di Hitler, durò troppo poco per modificare un quadro radicato nel conservatorismo sociale della seconda metà dell’Ottocento. L’identità tedesca cambiò decisamente solo nel secondo dopoguerra, con la nascita della Repubblica federale. La «piccola borghesia» di Willms diventa con una mutazione quasi genetica una classe media, forte dei propri diritti democratici e consapevole delle proprie responsabilità civiche. A modificare ulteriormente la società tedesca è l’arrivo, nel dopoguerra, di milioni di immigrati: turchi e italiani, greci e portoghesi, russi e spagnoli, attirati dal miracolo economico. Oggi quasi un abitante su dieci è straniero e quindici milioni di tedeschi hanno radici nel mondo dell’immigrazione.
Dal 2000, la legge del 1913 è stata riformata. La Germania ha abbandonato lo ius sanguinis per abbracciare lo ius soli, il diritto del suolo, e permettere ai tassisti ghanesi di Amburgo, ai ristoratori turchi di Monaco o agli operai italiani di Wolfsburg di diventare tedeschi, portando nel loro Paese d’adozione nuove abitudini sociali, feste religiose, ricette culinarie. In occasione delle ultime recenti manifestazioni sportive, dai balconi di molti appartamenti di una Germania sempre più cosmopolita sventolavano due o più bandiere, segno delle tante fedeltà nazionali dei loro occupanti.
Il sangue, quindi, non è più l’elemento unificante dell’identità tedesca ma la lingua deve rimanere tale. E in questo senso, mentre a Parigi il tentativo dell’establishment è di difendere il francese in quanto Weltsprache (lingua mondiale), a Berlino la grande paura è che il tedesco non sia sufficientemente padroneggiato dai nuovi cittadini. Più di altri Paesi europei la Germania ha capito che uno Stato moderno non è più una costruzione etnica o razziale, ma politica, e che dietro alla presenza di milioni di immigrati si nascondono obblighi e diritti, per ambedue le parti. D’altro canto i benefici sono reciproci. Fino a vent’anni fa i locali pubblici in molte città tedesche erano chiusi in inverno e la vita sociale avveniva in casa, con l’eccezione delle feste al Biergarten. L’anno scorso, per i Campionati europei di calcio, bar e ristoranti si sono allargati sui marciapiedi dei centri cittadini, con una grande televisione a volume altissimo troneggiante tra i tavolini. A spiegare la metamorfosi non può essere solo l’effetto serra.
B.R.
Questo articolo è stato pubblicato nel numero di marzo di IL, una rivista mensile del Sole/24 Ore. E' stato illustrato con dei ritratti di tedeschi. A confronto, le immagini d'epoca in bianco e nero di August Sander (1876-1964) e quelle moderne a colori di Valeska Achenbach e Isabela Pacini (ambedue nate nel 1974).