BRUXELLES – Solo le persone (e le nazioni) inette o ingenue festeggiano i compleanni con lo spirito effimero dell’oggi. Gli anniversari non sono solo l’occasione per divertirsi. Sono anche l’occasione per riflettere sul passato e soprattutto proiettarsi nel futuro. Il decennale dell’introduzione della moneta unica non poteva giungere in un momento più delicato. Dieci anni fa si sognava sulle capacità dell’euro di accellerare l’integrazione europea. Oggi ci si interroga nervosamente sul futuro dell’unione monetaria, sempre drammaticamente incerto.
La sede della Banca centrale europea, un vecchio grattacielo nel centro di Francoforte, è un edificio austero e freddo, costruito negli anni 70. Non così nella notte tra 31 dicembre 2001 e il 1 gennaio 2002. L’allora presidente Wim Duisenberg aveva organizzato un ricevimento per celebrare il lancio delle nuove banconote. Ai giornalisti ne furono distribuite (a pagamento naturalmente) una piccola scorta qualche minuto prima della mezzanotte. Un inviato della CNN si affrettò a raggiungere la troupe sul marciapiede per mostrare in diretta e in anteprima mondiale i nuovi biglietti.
A 120 anni di distanza si era avverata la previsione di William Bagehot che alla fine dell’Ottocento aveva affermato: “Entro non troppo tempo, tutta l’Europa, salvo l’Inghilterra, avrà una sola moneta”. Il 1° gennaio 2002, undici paesi europei si sono dotati di una sola valuta. Da allora in cinque ondate diverse sono stati raggiunti dalla Grecia, dalla Slovenia, da Cipro e Malta, dalla Slovacchia e dall’Estonia. Oggi in circolazione ci sono 14 miliardi di banconote e 97 miliardi di monete, per un valore totale di circa 887 miliardi di euro.
Nel 2001 Duisenberg parlò dell’euro come di “un catalizzatore” che avrebbe promosso maggiore integrazione tra i paesi della zona euro non solo nella finanza e nell’economia “ma anche nella politica estera, nella difesa, negli affari sociali”. Da Bruxelles il portavoce della Commissione Europea Olivier Bailly ha elencato con precisione cifre e successi. Ormai l’euro è utilizzato nel 20% degli scambi commerciali e pesa per il 20% nelle riserve valutarie. La moneta è utilizzata da 322 milioni di persone in 23 paesi, e permette di risparmiare fino a 25 miliardi di euro all’anno.
Per molti versi la moneta unica ha fatto miracoli (tralasciando per un attimo la fiammata di inflazione coincisa con il changeover). Purtroppo però è stata abbandonata a sé stessa. In una unione monetaria di stati sovrani, la valuta comune impone ai governi di rafforzare la propria economia. Così non è stato fatto. Molti paesi hanno colpevolmente dimenticato di risanare i conti pubblici e rendere il proprio tessuto produttivo più competitivo. Nel momento in cui si festeggiano i dieci anni dell’euro ci si interroga nervosamente sul suo futuro.
I più ottimisti citano l’esempio americano. Quando Mario Draghi ha parlato qualche settimana fa della necessità di un fiscal compact (un patto di bilancio) in Europa l’attuale presidente della Banca centrale europea si riferiva probabilmente ad Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro americano, che negli anni 1770 propose alle colonnie britanniche un voluntary compact, un nuovo contratto tra governati e governanti. Qualche giorno prima di Draghi era stato il commissario agli affari economici e monetari a riferirsi alla storia americana.
In un discorso Olli Rehn ha ricordato che nel 1790 il governo americano decise di assumere il debito dei 13 stati che ai tempi formavano gli Stati Uniti d’America. Dovette in quella circostanza convincere in particolare la Virginia, uno stato particolarmente geloso della propria autonomia e patria di James Madison e Thomas Jefferson, due futuri presidenti. A molti nel pubblico, il parallelo con la Germania è risultato evidente. Di questi tempi, i riferimenti alla storia americana sono al tempo stesso fonte d’ispirazione e atto di speranza.
Altre esperienze storiche invece fanno temere il peggio per il futuro della valuta europea. L’Unione monetaria latina tra il 1865 e il 1914 fallì principalmente perché non c’era una moneta unica, ma valute nazionali parallele che potevano circolare nei vari paesi della zona valutaria. Peraltro non c’era né una banca centrale comune né tanto meno una politica monetaria comune. L’Unione monetaria scandinava alla fine dell’Ottocento o la zona valutaria dell’Africa orientale alla fine del Novecento seguirono più o meno lo stesso destino.
Non necessariamente però bisogna guardare agli Stati Uniti per trovare una unione monetaria di successo. L’esperienza dello Zollverein è spesso dimenticata – quasi che le critiche odierne alla Germania in campo valutario gli avessero lasciato una patina di politicamente scorretto – ma questo particolare accordo monetario formato nel 1818 tra una quarantina di principati tedeschi sopravvisse. Anzi, nota Armand-Denis Schhor, professore a Lilla e autore di Economie politique de l’euro, “l’unificazione monetaria ha preceduto l’unificazione politica”.
A dieci anni dall’adozione della moneta unica lo sconquasso finanziario ha mostrato la grande ambiguità del Trattato di Maastricht, fondato su una valuta unica ma sovanità molteplici. Dopotutto la stessa esperienza tedesca nell’Ottocento è forse il migliore viatico per risolvere questa contraddizione e dare all’Unione un futuro. Diceva il cardinale de Retz: “On ne sort de l’ambiguité qu’à son détriment”, si esce dall’ambiguità solo rinunciando ai propri vantaggi. Ma quali sono, nel caso dell’Europa, i vantaggi dell’ambiguità che ha caratterizzato sinora la politica dei suoi membri?