BRUXELLES – Non passa giorno senza che politici, sindacalisti, imprenditori o commentatori esprimano timori sui rischi della concorrenza internazionale. Molti addirittura flirtano con gli appelli al protezionismo. In occasione del Consiglio europeo, che ha discusso anche delle trattative in vista di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, la Commissione ha preparato un rapporto che sfata molti miti e rivela inattese sfaccettature sul peso europeo nel commercio mondiale.
La relazione ha l'obiettivo di difendere la strategia della
Commissione che ha fatto dell'Unione «la potenza commerciale più
importante a livello globale», come ha detto nei giorni scorsi davanti
al Parlamento europeo il presidente dell'esecutivo comunitario José
Manuel Barroso. Nonostante la crisi economica e la concorrenza dei Paesi
emergenti, la quota dell'Unione delle esportazioni mondiali è rimasta
stabile al 20%, mentre è calata la percentuale giapponese o americana.
Più
sorprendente il settore manifatturiero, malgrado le chiusure di
impianti nell'acciaio o nell'auto, registra un surplus di quasi 300
miliardi di euro, un attivo che dal 2000 è stato moltiplicato per
cinque. Poco importa se la bilancia commerciale dell'Unione mostra un
piccolo deficit di 74 miliardi di euro, i vantaggi del libero commercio
secondo la Commissione sono evidenti. L'Unione ha una quota del 28% nel reddito globale generato dalla produzione di beni manifatturieri (la Cina è al 16 per cento).
Naturalmente,
Barroso ammette che ci sono differenze di competitività tra gli Stati
membri. Ma ciò non impedisce all'Italia, un Paese in ritardo su questo
fronte, di essere tra i Paesi nei quali tra l'8 e il 10% degli occupati
lavora nell'export. C'è di più. Il numero di posti di lavoro
nell'industria e nei servizi dedicati alla produzione di beni
manifatturieri è salito negli ultimi 15 anni per toccare i 35 milioni,
mentre è sceso sia negli Stati Uniti che in Giappone.
Nel suo
rapporto, la Commissione mette l'accento anche su come stia cambiando la
catena produttiva. Lo stesso iPhone, ideato in California e costruito
nel Guangdong, ha un contributo europeo del 12 per cento. In questo
senso, la tradizionale differenza tra import ed export non è più valida.
Le imprese europee importano per riesportare. Ormai, si legge nel
rapporto, «la quota di importazioni dall'estero nelle esportazioni
dell'Unione è salita di oltre il 50% dal 1995 per raggiungere il 13 per
cento».
Nel contempo, la differenza tra industria e servizi è andata
scemando. Il terziario partecipa con una quota del 40% al valore
aggiunto del settore manifatturiero. La conclusione dell'esecutivo
comunitario è che l'Europa ha bisogno di accordi commerciali, fosse solo
perché nei prossimi anni la crescita economica mondiale sarà nei Paesi
emergenti e perché la domanda interna nell'Unione rimarrà
prevedibilmente debole. Non per altro la Commissione moltiplica i
negoziati commerciali.
«Il nostro concetto di reciprocità – spiega
l'esecutivo comunitario – ha come obiettivo di aprire i mercati
stranieri non di chiudere il nostro». Nel contempo, ammette Bruxelles,
«dovremo inevitabilmente accettare una limitata assimetria nelle fasi
transitorie». La partita può rivelarsi complicata. Con la Cina, per
esempio, non mancano le diatribe su telefonia a solare. Con gli Stati
Uniti, i negoziati in vista di un accordo di libero scambio sono stati e
saranno irti di ostacoli.
B. R.