Fra i temi discussi in queste settimane a livello europeo ve ne è uno che probabilmente non ha avuto l’attenzione che merita. Si tratta della riforma degli aiuti di Stato, preannunciata dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dalla commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager. L’obiettivo è di aiutare la competitività europea in un contesto internazionale più incerto e aggressivo.
In dicembre, la Commissione europea ha inviato ai paesi membri un questionario dedicato alla questione. Proposte da Bruxelles sono attese a breve, probabilmente prima del prossimo vertice europeo previsto a inizio febbraio. In ultima analisi, il desiderio è di facilitare l’uso del denaro pubblico in alcuni settori strategici pur di contrastare la concorrenza cinese e americana (con lo sguardo rivolto tra le altre cose al recente Inflation Reduction Act).
Il tema è controverso, e non solo perché non è chiaro se la riforma (nei fatti la terza in dieci anni) sarà adottata attraverso una mera decisione della Commissione europea o grazie a un più impegnativo iter legislativo. Durante un primo giro di consultazioni tra i Ventisette, alla vigilia di Natale, la Germania ha chiesto grande libertà di manovra, fino al 2030, e in particolare nel campo energetico e ambientale.
Altri paesi – precisamente la Danimarca, l’Olanda, la Polonia, l’Irlanda, la Finlandia e la Svezia – hanno scritto alla Commissione per esortarla ad esercitare “estrema cautela” nel modificare il quadro regolamentare: “Gli aiuti di Stato per la produzione di massa e le attività commerciali possono comportare significativi effetti negativi, tra cui la frammentazione del mercato interno, la corsa alle sovvenzioni dannose e l’indebolimento dello sviluppo regionale. Questi danni possono essere maggiori degli effetti positivi”.
Altri paesi ancora, quelli particolarmente indebitati – come l’Italia – temono che la riforma premi i paesi che hanno bilanci in ordine. L’argomento sollevato dal governo italiano non è fine a sé stesso. Non per altro si discute anche di creare un nuovo strumento finanziario a livello comunitario per garantire per quanto possibile l’accesso paritario al mercato (il cosiddetto level playing field). Novità anche su questo versante potrebbero giungere nei primi mesi di quest’anno.
Tornando alla riforma degli aiuti di Stato, la Francia è in una situazione ambivalente. Da un lato è diventata anch’essa un paese ad alto debito (pari nel 2022 al 112% del prodotto interno lordo, secondo le ultime previsioni della Commissione europea). Da questo punto di vista, il paese affronta le stesse preoccupazioni dell’Italia.
Dall’altro, proprio la Francia potrebbe essere tra i paesi che più approfitteranno della riforma, che nei fatti ridarà dopo anni, se non decenni, un ruolo economico di primo piano alla mano pubblica. Parigi potrà far valere la sua tradizione colbertista. La stessa che nella storia più recente le ha permesso, tra alti e bassi, di creare il Concorde, il Minitel, il TGV, il razzo Ariane o la carte à puce.
Negli ultimi decenni, il paese ha perso terreno in campo industriale, rispetto alla Germania e all’Italia. Le ultime statistiche mostrano che l’industria in Germania pesa per il 27% del valore aggiunto, in Italia per il 16%, in Francia per appena l’11%. Potremmo addirittura chiederci se il ritardo francese in campo industriale non sia almeno in parte attribuibile ai limiti posti dalle regole europee al ruolo dello Stato nell’economia.
In questo contesto, non deve sorprendere se il governo francese abbia cavalcato più di altri i progetti europei di comune interesse (noti con l’acronimo inglese IPCEI), oggi già avviati nei settori dei microprocessori, delle batterie, dell’idrogeno. Autorizzati espressamente da Bruxelles, gli IPCEI consentono ai governi di usare il denaro pubblico più liberamente che in circostanze abituali.
Parigi vede negli IPCEI e più in generale nella prossima riforma sugli aiuti di Stato una occasione per un rilancio dell’industria nazionale, anche in chiave di autonomia strategica, come emerge dalla lettura di un recente rapporto parlamentare firmato da due deputati, il centrista Patrice Anato e il neogollista Michel Herbillon. Il concetto è stato ripreso in un documento franco-tedesco reso pubblico prima di Natale.
Le aziende tedesche, spessissimo in collaborazione con le università del paese sulla scia dell’esperienza guglielmina, hanno innegabili capacità innovative, ma l’intervento pubblico è più parcellizzato, segnato dall’assetto federale e da una vena liberalc.
Al netto del forte indebitamento pubblico, un aspetto da non disdegnare, la Francia potrebbe essere in migliore posizione di altri paesi per approfittare della prossima riforma degli aiuti di Stato. Una recente iniziativa è eloquente. Nel 2020, due giganti – Stellandis e Total – hanno creato una joint venture per la produzione di batterie. Da allora anche Daimler si è associata all’impresa.