La parola Nazione è diventata improvvisamente di moda in Italia, da quando esponenti del nuovo governo la usano con grande facilità, quasi ostentandola.
La stessa premier Giorgia Meloni l’ha utilizzata 14 volte nel suo discorso programmatico dinanzi al Parlamento (riservando alla parola Paese appena 2 citazioni e 13 a quella di Stato). A titolo di confronto, nella Costituzione le parole Nazione e Paese ricorrono entrambe tre volte, mentre la parola Stato è citata oltre 50 volte.
Nazione viene dal latino natio, nascita in italiano. Il termine fu molto utilizzato prima in Francia, durante la Rivoluzione francese, e poi successivamente nell’Ottocento al momento delle rivoluzioni liberali del 1848.
Scrive l’Enciclopedia Treccani: “La nazione è il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla realizzazione in unità politica”.
Insomma, rispetto ad altri termini – come Paese o Stato – quello di Nazione tende ad escludere gli stranieri o più semplicemente tutti coloro che per un motivo o per l’altro non sono italiani de souche, italiani di origine, o che hanno una religione diversa da quella cattolica. Mentre la parola Stato include, quella di Nazione esclude. La prima si rifà a diritti e doveri. La seconda a sangue e cultura.
In un paese che conta oltre cinque milioni di stranieri, il termine Nazione stona. È vero che la parola è usata talvolta anche in Francia o negli Stati Uniti, ma nelle occasioni più auliche e celebrative (entrambi i paesi, dopotutto, sono nati o rinati sulla scia di una rivoluzione popolare, contro l’Ancien Régime e la British Crown).
L’annuale discorso del presidente americano sullo State of the Union si riferisce appunto all’Unione, e non alla Nazione. “Our country, right or wrong”, diceva il patriota americano Stephen Decatur (1779-1820). Oltre Atlantico, a Parigi sul frontone del Panthéon vi è scritto: “Aux grands hommes la patrie reconnaissante” (la scritta fu voluta dall’ultimo Re dei francesi, Luigi-Filippo, nel 1837). Lo stesso Charles de Gaulle parlava di Etat-Nation, memore di Luigi XIV che usava dire: “L’Etat, c’est moi”.
Si deve presumere che con l’uso della parola di Nazione il nuovo governo voglia giocare la carta del sentimento nazionale e magari strizzare l’occhio a qualche eventuale nostalgico del Fascismo. Più in generale, però, mi sembra ci sia soprattutto il tentativo di scaldare il cuore a elettori scombussolati dal momento di grande incertezza, rassicurandoli sulla perennità del paese.
Non mi riferisco tanto alla crisi economica quanto alla situazione demografica. Come non legare l’uso ripetuto della parola Nazione al rapido invecchiamento della popolazione italiana, associato a un forte aumento del numero di immigrati e a un altrettanto forte aumento degli italiani che lasciano il paese?
In un libro di qualche anno fa, Fear of Small Numbers (Duke University Press, 2006), Arjun Appadurai si chiede come sia possibile che nel grande mondo occidentale la presenza di minoranze in alcuni casi molto esigue possano scatenare paure ataviche e riflessi razzisti.
Lo studioso americano di origine indiana giunge alla conclusione che la minoranza per il solo fatto di esistere mette in dubbio l’esistenza stessa della maggioranza. C’è di più. Le minoranze ricordano indirettamente alla maggioranza che essa stessa può diventare a sua volta minoranza.
A modo suo, il caso italiano non è molto dissimile da quello di alcuni paesi dell’Est – l’Ungheria, la Polonia, la Bulgaria – in preda a un doppio shock demografico: una forte emigrazione e un forte invecchiamento. Prevale, a torto o a ragione, la paura di scomparire. La diversità etnica e culturale è ritenuta una minaccia per la sopravvivenza stessa della comunità nazionale.
In Italia, la questione sembra assumere connotazioni particolari. C’è il timore che immigrazione straniera e invecchiamento demografico rimettano in discussione antichi legami clientelari e familistici. Lo straniero intimidisce, anche quando rispetta scrupolosamente le leggi del paese in cui vive. Ignora le regole non dette della comunità nazionale; non esprime naturale fedeltà al clan, alla tribù o ad altra corporazione; e non gioca secondo i canoni prevalenti nel paese. Insomma, non appartiene alla Nazione.