Nuovo debito in comune – Sempre più necessario, e probabile (Italia permettendo)

L’evolversi della crisi bellica, energetica ed economica sta rendendo sempre più evidente la necessità per l’Unione europea di indebitarsi nuovamente sui mercati finanziari, come fece due anni fa quando scoppiò la pandemia da Covid-19. Il braccio di ferro tra i Ventisette è meno appariscente del contrasto sul se e sul come di un tetto al prezzo del gas, ma forse ben più importante.

Ieri, parlando dinanzi al Parlamento europeo, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha detto chiaramente che il programma di transizione energetica RePowerEU richiede denaro fresco per spezzare la dipendenza dal gas russo, accelerare il passaggio alle fonti rinnovabili, investire in nuove infrastrutture transfrontaliere. I 210 miliardi di euro previsti da qui al 2027 non bastano.

“La Commissione effettuerà una valutazione delle esigenze di RePowerEU – si legge in un documento comunitario distribuito martedì -. I risultati della valutazione costituiranno la base per le proposte dell’esecutivo comunitario volte ad aumentare la potenza finanziaria di RePowerEU, in modo da garantire la competitività dell’industria europea e l’indipendenza energetica in tutta l’Unione europea”. Qualche settimana fa, Bruxelles stessa ha stimato le necessità di investimenti a circa 520 miliardi di euro all’anno da qui alla fine del decennio.

L’ex ministra della Difesa tedesca ha messo il dito sulla piaga. E non è l’unica piaga. C’è anche la questione dello shock economico provocato dalla crisi energetica e dall’aumento del prezzo del gas e dell’elettricità. Finora i paesi membri si sono adoperati ad affrontare la crisi ciascun per sé, ma è sempre più chiaro che questo metodo rischia di mettere in crisi i bilanci dei paesi più indebitati, segmentare il mercato unico, ed essere insufficiente ad evitare una riduzione strutturale della competitività europea.

Infine, i Ventisette si sono impegnati ad aiutare l’Ucraina nella sua guerra contro la Russia “per tutto il tempo necessario”. Non si tratta solo di inviare armi al paese dell’Est Europa, ma di aiutarlo nella vita quotidiana. I paesi membri sono d’accordo nel garantirgli 1,5 miliardi di euro al mese nel 2023: in tutto 18 miliardi di euro di prestiti in un anno. Nella stessa ottica, vi è bisogno di denaro fresco per rafforzare la difesa comune.

Insomma, se l’Europa vuole rispettare gli impegni ambientali e politici ed evitare un tracollo economico, l’indebitamento in comune rischia di essere ancora una volta necessario. Sappiamo che i commissari Paolo Gentiloni e Thierry Breton hanno posto il problema in un articolo pubblicato sulla stampa europea all’inizio del mese, proponendo un nuovo piano SURE (debito europeo per finanziare la cassa integrazione). Sappiamo altresì che l’ipotesi non piace ad alcuni paesi del Nord Europa, a iniziare dalla Germania e dall’Olanda.

Ma quanto granitica è la loro posizione? In un contesto nel quale il bilancio comunitario è in evidente difficoltà nell’affrontare i costi delle ultime emergenze, come ammesso dal commissario austriaco Johannes Hahn, l’ipotesi di nuovo debito in comune è in realtà sempre più d’attualità.

In Germania, dopo un momento di freddezza, il governo non ha escluso nuovi aiuti comunitari, tramite prestiti, non sussidi. D’altro canto, l’establishment tedesco tocca ormai con mano i rischi che la crisi energetica mini la competitività economica del paese. Scrive in un recente rapporto Deutsche Bank, la prima banca privata tedesca: “Quando guarderemo all’attuale crisi energetica tra una decina d’anni, potremmo considerare questo periodo come il punto di partenza di un’accelerazione della deindustrializzazione in Germania”.

In Olanda, la diplomazia nazionale guarda con preoccupazione ai costi relativi al sostegno di cui ha bisogno l’Ucraina. La stessa ricostruzione del paese, di cui si parlerà in una conferenza internazionale a Berlino il 25 ottobre, metterà l’accento proprio su questo aspetto. Più in generale anche nei Paesi Bassi c’è il crescente timore, come nel 2020, che lo shock economico metta a repentaglio i suoi principali fornitori industriali, come l’Italia.

Pressioni giungono dalle parti sociali.

Ha detto mercoledì la Confederazione sindacale europea: “Sono stati fatti alcuni progressi, ma l’azione deve essere all’altezza dell’urgenza della situazione se vogliamo evitare che questa crisi metta a repentaglio vite umane quest’inverno. L’Unione europea ha finora trascurato due soluzioni cruciali a questa crisi: un secondo programma SURE per salvare i posti di lavoro nelle industrie ad alta intensità energetica che lottano contro il costo dell’energia e il sostegno agli aumenti salariali per far fronte all’aumento del costo della vita.”

Più vaga, ma altrettanto preoccupata è stata Business Europe, sempre mercoledì: “C’è il rischio concreto che le imprese ad alta intensità energetica si trasferiscano fuori dall’Europa, dove i prezzi dell’energia sono molto più bassi, con conseguenze drammatiche sulla nostra competitività e sui posti di lavoro (…) I leader dell’Unione europea devono concordare urgentemente nuove misure a livello europeo per alleviare i costi delle imprese europee”.

Sul fronte politico è da segnalare anche una iniziativa parlamentare trasversale. In una lettera alla Commissione europea firmata martedì da numerosi deputati di vari partiti (quasi 60 in tutti), l’ex premier belga e ora eurodeputato liberale Guy Verhofstadt ha esortato Bruxelles a mettere a punto “un piano europeo di assistenza energetica a beneficio di consumatori ed imprese, finanziato con debito europeo”. Associato al piano dovrebbe essere un fondo europeo per la sicurezza energetica.

Dietro alle discussioni sul tetto al prezzo del gas, il dibattito di politica economica è in corso. Cresce la consapevolezza che la risposta debba essere ancora una volta unitaria. Sull’esito finale non mancano le incertezze. Ne vedo almeno due.

Da un lato, la coalizione a tre (socialdemocratici, verdi e liberali) che sostiene il governo Scholz in Germania è fonte di grande incertezza. Le divisioni tra i partiti sono evidenti e frenano le discussioni europee. Dall’altro, molto dipenderà anche dal futuro governo italiano. Se il prossimo esecutivo di destra si dimostrerà euroscettico in politica ed in economia, difficilmente i partner vorranno impegnarsi nuovamente in iniziative di debito in comune.

(Nella foto tratta dal sito francese Marianne, i vincitori delle ultime elezioni legislative in Italia)

  • habsb |

    egr. dr. Romano

    è peraltro tristissimo che su decisioni gravissime come quella di sprofondare il continente nel debito (e nella dipendenza dai rating di 2 o 3 agenzie), o quella di provocare militarmente la nazione dotata del più grande arsenale nucleare (e non solo) del mondo, non vengano consultati né i popoli sovrani né i parlamenti nazionali.

    In singolare contrasto, il governo ungherese spesso accusato di autoritarismo, ha indetto un referendum nazionale sull’opportunità delle sanzioni commerciali e economiche contro la Russia: se da un lato è davvero paradossale che la piccola Ungheria dia una gran lezione di democrazia al resto dell’Europa, dall’altro è inquietante che l’iniziativa di Orban venga quasi ignorata dai media “mainstream”, oramai diventati cassa di risonanza dell’ufficio stampa del governo di Kiev.

  Post Precedente
Post Successivo