È uno shock economico probabilmente senza precedenti quello che sta colpendo l’Europa sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina. Non sarà facile da gestire né per i governi né per le banche centrali. Il volano comunitario potrebbe rivelarsi ancora una volta utile.
Sul fronte della stabilità finanziaria, l’esposizione delle banche occidentali alla Russia è limitata. Abbiamo capito che le istituzioni più esposte sono UniCredit, Société Générale e Raiffeisen. Secondo KBC Asset Management, Raiffeisen genera il 32% dei suoi profitti nelle sue filiali russe. In Russia la banca ha il 9% dei suoi prestiti totali. Unicredit e Société Générale generano il 6-7% dei loro profitti in Russia e i prestiti delle loro filiali rappresentano circa il 2% del totale.
Non possiamo escludere fallimenti improvvisi – come successe alla fine degli anni 90 quando la crisi finanziaria russa del 1998 mise in gravissima difficoltà il fondo d’investimento LTCM – ma la situazione appare relativamente sotto controllo.
Assai più complicata è la situazione economica. In passato, almeno fino agli anni 80, le recessioni economiche sono state provocate da un improvviso balzo dell’inflazione. Successivamente, le frenate dell’economia sono state causate da un fortissimo aumento del credito che ha scatenato la paura degli investitori (penso allo scoppio della bolla internet del 2001 o al fallimento di Lehman Brothers nel 2008). Nel contempo tuttavia l’inflazione rimaneva bassa.
Oggi dobbiamo fare i conti con entrambi i fattori: una forte espansione del debito per via di tassi d’interesse particolarmente bassi e un altrettanto forte balzo dell’inflazione. Quest’ultimo è provocato soprattutto dai dubbi sulle forniture di idrocarburi russi, dalle strozzature nelle catene di produzione, e dalle preoccupazioni sugli approvvigionamenti di materie prime agricole.
Alcuni dati fanno riflettere. La tonnellata di grano ha toccato alla Borsa di Parigi i 435 euro, con un aumento di quasi il 40% in una settimana. Da inizio anno, la Borsa di Milano ha perso quasi il 20% del suo valore. Sempre questa settimana, il barile di petrolio ha sfiorato i 140 dollari, un record negli ultimi 14 anni. Più a lungo termine, la stessa transizione climatica rischia di mettere sotto pressione i prezzi.
Sul fronte del credito, le cose non sono messe meglio. Le famiglie hanno ridotto l’indebitamento rispetto alla crisi del 2008, a cui aveva contribuito una bolla speculativa, mentre le imprese lo hanno invece aumentato. Nel contempo, si è generalizzato un forte aumento dei prezzi immobiliari.
Sappiamo poi che la pandemia ha già provocato un fortissimo aumento del debito pubblico in molti paesi della zona euro. In Italia è pari al 150% del PIL, ma anche in Francia supera il 115% del PIL. Secondo l’Institute of International Finance di Washington, il rapporto debito-PIL a livello mondiale è stato nel 2021 del 351%, vicinissimo al record storico del 2020 (360%). Nei soli paesi emergenti, la montagna di debito ammonta a 303 mila miliardi di dollari.
C’è di più. Il debito pubblico è chiamato ad aumentare ulteriormente per compensare i danni provocati dal rallentamento dell’economia, per finanziare nuove fonti di energia, per aiutare la transizione climatica.
Come agire in queste circostanze?
Per la Banca centrale europea il momento è delicato. In circostanze normali avrebbe già aumentato i tassi d’interesse per anticipare e limitare l’incremento dei prezzi. Ha preferito non farlo presumibilmente perché ha paura di creare tensioni sui mercati obbligazionari e mettere in difficoltà i paesi a debito più elevato. Agire sul costo del denaro è comunque penalizzante in un contesto segnato dal rischio di stagnazione.
Anche per i governi la situazione è complessa. I livelli di debito pubblico sono già elevati. Aumentarli ulteriormente rischia di creare preoccupazioni presso gli investitori e di pesare sull’economia. Su questo fronte tuttavia una via di uscita potrebbe esservi: nuovi programmi di spesa a livello comunitario, in modo da evitare di pesare sulle finanze pubbliche nazionali.
Già oggi, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani (OCPI) dell’Università Cattolica di Milano, è fortemente aumentata la spesa pubblica per contrastare il rincaro energetico. La Francia e l’Italia hanno stanziato lo 0,8% del loro PIL (rispettivamente 18,9 e 14,8 miliardi di euro), la Spagna e l’Olanda lo 0,4% del loro PIL (rispettivamente 5,3 e 3,2 miliardi di euro).
In occasione della pandemia fu creato il piano SURE (l’acronimo sta per Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency). Il programma ideato per finanziare sussidi alla disoccupazione ha preso a prestito sui mercati 94,3 miliardi di euro, e ha distribuito a 19 paesi su 27 un totale di 89,6 miliardi di euro. SURE potrebbe rivelarsi un modello da utilizzare anche in questa circostanza per aiutare le imprese in crisi, proteggere i consumatori dal forte aumento dell’energia, diversificare le fonti energetiche.
(Nel grafico pubblicato dalla Banca per i regolamenti internazionali, l’andamento storico del debito pubblico a livello mondiale in rapporto al prodotto interno lordo)