Ci saranno molti metri di giudizio per valutare ex post la bontà del piano di rilancio nazionale che è stato appena presentato dal governo Draghi. Propongo di guardare all’andamento degli investimenti diretti dall’estero, un buon indicatore per capire quanto un paese sia attraente agli occhi di un investitore internazionale. Indirettamente gli stessi investimenti diretti dall’estero sono anche il riflesso spietato delle debolezze nazionali. I dati citati da ora in poi provengono dalla banca dati dell’ISTAT e dell’ICE, elaborati dal Ministero per lo Sviluppo Economico.
In numeri assoluti, tra il 2014 e il 2019, l’Italia ha registrato appena 790 investimenti dall’estero. In confronto, i dati della Germania (6.184), della Francia (3.587) e della Spagna (2.513) fanno impallidire. In miliardi di euro, le differenze sono ancora più eclatanti. Sempre nel quinquennio di riferimento, l’Italia ha attirato investimenti per appena 21,2 miliardi di euro. La Spagna, quasi quattro volte di più (79,6 miliardi di euro). Germania e Francia, oltre tre volte di più (rispettivamente 78,5 e 64,2 miliardi di euro).
Gli stessi investimenti diretti dall’estero sono uno strumento cruciale per creare occupazione. In Italia, tra il 2014 e il 2019, questi hanno creato 57.769 posti di lavoro; in Spagna oltre 250mila posti di lavoro. In molti casi, è vero, gli investimenti nella penisola iberica si concentrano in settori a bassa intensità di capitale, ma la differenza con l’Italia resta abissale. In Germania e in Francia i posti di lavoro creati nello stesso periodo sono stati quasi 220mila e più di 170mila rispettivamente.
Anche se guardiamo allo stock di investimenti dall’estero, il ritardo italiano è notevole. Nel 2018 raggiungeva i 431 miliardi di dollari, rispetto ai 659 miliardi della Spagna, agli 825 miliardi della Francia e ai 939 miliardi della Germania. I grandi investitori in Italia sono nell’ordine di importanza gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e il Regno Unito. Oltre il 50% dei flussi è diretto in Lombardia. Il resto è suddiviso fra appena sette regioni, tendenzialmente del Nord Italia.
A dispetto di imprese di prim’ordine nel settore industriale anche in campi innovativi, l’Italia incute cautela. Concretamente, l’apparato giudiziario non è abbastanza efficiente per assicurare la garanzia del diritto. L’istruzione, e lo abbiamo toccato con mano durante la pandemia, non è in cima alle preoccupazioni nazionali, al netto di una fastidiosa retorica tutta incentrata sui “nostri ragazzi”. L’amministrazione pubblica, al di là di alcuni settori di punta, è di stampo borbonico. Le stesse corporazioni, pubbliche o private, non sono da meno.
Più in generale, il paese è avviluppato in un reticolato di regole familistiche e clientelari che ne rende provinciale se non incomprensibile il funzionamento agli stranieri. In buona sostanza, il piano di rilancio non dovrebbe servire tanto a sostenere l’economia, quanto soprattutto a modernizzare il paese; non dovrebbe introdurre misure di breve periodo ma politiche di lungo termine.
L’Italia ha vissuto un momento d’oro dopo la Seconda guerra mondiale. Il conflitto aveva drammaticamente rimescolato le carte della società italiana, rimesso radicalmente in discussione le clientele del passato, creato nuove opportunità. Forse bisogna sperare che la pandemia virale abbia le stesse conseguenze.
(Nella foto AFP, il presidente del Consiglio Mario Draghi, 73 anni, durante una conferenza stampa a Roma il 16 aprile scorso)