La crisi greca, che ha segnato l’ultimo decennio europeo, insegna che le banche sono un barometro indispensabile per capire il sentimento del mercato e soprattutto i rischi di lenta deriva di un paese. Lo stesso rischia di essere vero in Italia. A quasi tre mesi dal voto del 4 marzo, l’incertezza politica sta minando la fiducia degli investitori, preoccupati sia dall’attuale vuoto di potere, sia dall’esito di eventuali nuove elezioni politiche. Alcuni aspetti andranno seguiti nelle prossime settimane per capire lo stato di salute del sistema finanziario nazionale e di conseguenza i pericoli che corre l’Italia in questa fase storica.
Una premessa: i dati di mercato mostrano che i livelli di liquidità delle banche italiane sono buoni e che in generale gli istituti di credito hanno ridotto la loro esposizione al debito pubblico italiano, come ha notato ieri lo stesso governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Al tempo stesso, è chiaro che l’impatto della crisi italiana sulle singole banche dipende dall’esposizione degli stessi istituti di credito agli strumenti finanziari italiani. Secondo un rapporto del centro-studi Autonomous, le più esposte sono la Banca popolare dell’Emilia Romagna, l’UBI Banca e il Banco BPM. Tutte e tre hanno una esposizione all’Italia superiore al 1500% rispetto al patrimonio al netto delle attività immateriali (il Tangible Book Value in inglese). Tra le banche straniere, le più esposte sono la francese Crédit Agricole, la tedesca Aareal, e una altra francese, BNP Paribas (con quote poco sopra o poco sotto il 200% del TBV).
Ciò detto, il primo aspetto da monitorare riguarda le vendite di titoli di Stato da parte degli investitori istituzionali. Questi agiscono in automatico, superate soglie predefinite. Sul mercato, numerosi osservatori sono convinti che un divario tra titoli decennali tedeschi ed italiani superiore a 250 punti base (mentre scrivo è oltre i 300 punti base) farà scattare una serie di disinvestimenti, oltre che una possibile revisione al ribasso della votazione del debito pubblico italiano da parte delle agenzie di rating.
In ballo, vi è la partecipazione degli istituti di credito italiani alle operazioni di rifinanziamento della Banca centrale europea. L’istituto monetario si affida a quattro agenzie di rating e accetta obbligazioni che siano almeno investment grade. Basta che una delle quattro agenzie consideri il titolo almeno investment grade perché le obbligazioni siano accettate come collaterale. Tenuto conto della situazione sui mercati, a un certo punto la BCE potrebbe non più accettare titoli italiani al momento delle operazioni di rifinanziamento, con tutte le conseguenze del caso.
Un altro aspetto, strettamente legato al primo, è il livello di liquidità degli istituti di credito italiani. Secondo calcoli di Autonomous, gli istituti di credito nazionali hanno attualmente in prestito dalla BCE fino a 250 miliardi di euro, in operazioni di pronti contro termine che per la maggior parte scadono tra il 2020 e il 2021. Nel contempo, hanno parcheggiato presso la BCE depositi in eccesso per oltre 100 miliardi di euro. Come detto nella premessa, per ora, la liquidità appare quindi abbondante.
Tuttavia, l’aumento del rendimento dei titoli di Stato, che si riflette in un incremento dello spread, comporta di converso un calo del prezzo e quindi un indebolimento patrimoniale delle banche, soprattutto quelle che hanno mantenuto esposizioni molto elevate. Analisti di Citi calcolano che un aumento di 100 punti base dello spread abbia un impatto di 25 punti base sui rapporti di capitale. L’effetto è doppio: la forza patrimoniale si indebolisce, e aumenta di conseguenza il costo di finanziamento, in un momento in cui si discutono nuovi strumenti di capitale o di debito che andrebbero utilizzati in occasione di una risoluzione bancaria e che andranno finanziati sul mercato.
Infine, il debito pubblico, che ammonta a 2.300 miliardi di euro, di cui circa 750 miliardi in mani straniere, secondo i calcoli di Nomura. La domanda chiave in questo frangente riguarda soprattutto il comportamento delle banche italiane. Acquisteranno debito nazionale come fecero sette anni fa, nel 2011, quando l’Italia rischiò di finire sotto un programma del Fondo monetario internazionale? Oppure venderanno obbligazioni italiane, seguendo l’esempio probabile degli investitori internazionali?
In questi anni, gli istituti di credito italiani hanno ridotto la loro esposizione al debito nazionale. Ciò detto, nel caso gli investitori stranieri si affrettino a vendere titoli di Stato italiani per paura di un’uscita dall’euro, i banchieri italiani potrebbero avere comunque convenienza a comprare a basso prezzo, visto che non riuscirebbero in ogni caso a sottrarsi agli effetti devastanti di una ridenominazione di attività e passività, mentre potrebbero incassare profitti ingenti in caso di una normalizzazione della situazione. Non si può però escludere che scelgano invece la strada opposta, decidendo anche loro di vendere per evitare di indebolire ulteriormente il loro bilancio, sopattutto se con una revisione al ribasso del rating nazionale i titoli italiani non dovessero più essere accettati nelle operazioni pronti contro termine della BCE.
Un ultimo aspetto riguarda le sofferenze creditizie. Sulla base di un piano elaborato con la Commissione europea e approvato dai ministri delle Finanze dell’Unione, l’Italia sta cercando di ridurne l’ammontare nei bilanci bancari. La crisi finanziaria rischia come minimo di rallentare il processo di dismissione, alla luce della sfiducia degli investitori, lasciando immutata una fragilità che in questo momento è particolarmente deleteria. Anzi, la situazione potrebbe peggiorare se l’innalzamento dei tassi d’interesse finisse per compromettere la capacità di famiglie e imprese di pagare i loro debiti bancari.
Ostaggio di un drammatico circolo vizioso, nel scenario peggiore le banche perderebbero il potere di finanziare l’economia e soprattutto metterebbero in allarme i depositanti. Questi, preoccupati per i loro risparmi, non esiterebbero a cambiare banca e magari, se le cose si mettono male, ad esportare i loro capitali. In Grecia, la fuga dei depositi avvenne tardi, quando l’uscita dalla moneta unica appariva dietro l’angolo. Accelerò la crisi, e soprattutto rese inevitabile la richiesta di aiuto ai partner europei.
(Nella foto, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, 67 anni, a Roma durante l’assemblea annuale dell’istituto monetario il 29 maggio 2018)
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