La Commissione europea presieduta da Jean-Claude Juncker ha compiuto il primo anno questa settimana. E’ per certi versi il momento di un primo giudizio, anche se alla fine del mandato mancano ancora quattro anni. Di iniziative legislative, la Commissione Juncker ne ha prese molte: sul fronte dell’immigrazione, del mercato dei capitali, del rafforzamento dell’Unione monetaria, del commercio internazionale. E’ arrivata alla guida della macchina comunitaria con l’impegno di semplificare la legislazione europea, ridare slancio al mercato unico, migliorare l’integrazione tra i Ventotto, gestire la controversa richiesta inglese di riformare il rapporto tra Londra e Bruxelles, lottare contro l’evasione fiscale. E’ ancora presto per giudicare i risultati. Una prima valutazione, tuttavia, può essere fatta sul suo modo di lavorare. Di recente, l’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Federica Mogherini, ha fatto notare che nel collegio siedono una maggioranza di primi ministri e di ministri, e che questa particolarità rende l’esecutivo comunitario particolarmente forte. E’ vero. Tra i commissari vi sono ex capi di governi (Valdis Dombrovskis, Jyrki Katainen), ex ministri delle Finanze (Margrethe Vestager, Pierre Moscovici), ex ministri degli Esteri (la stessa signora Mogherini, Frans Timmermans). Lo stesso Juncker, un ex premier del Lussemburgo dallo stile corrosivo e controverso, è giunto alla guida della Commissione promettendo un esecutivo comunitario più politico dei precedenti. In effetti lo è stato, proponendo iniziative legislative particolarmente ambiziose. Il problema, tuttavia, è che la scelta di Juncker rischia di mettere in pericolo la credibilità della Commissione europea e di contribuire a un rigetto dell’Europa in molti paesi. L’esecutivo comunitario è sempre stato un organismo ambivalente, al tempo stesso tecnocratico, ma anche politico. Oggi più di ieri, tuttavia, la doppia natura appare sempre più difficile da gestire. Sempre più spesso, l’anima politica espressa fortemente da Juncker si rivela incompatibile con il compito di un esecutivo comunitario che deve essere l’obiettivo e imparziale “Guardiano dei Trattati”. In un contesto nel quale l’Unione non ha ancora completato la transizione da confederazione a federazione, le decisioni politiche della Commissione tendono a indebolire la sua credibilità. Non solo perché scelte politiche si traducono in scelte discrezionali e inevitabilmente discutibili, come nell’applicazione del Patto di Stabilità e di Crescita; ma anche perché il potere ultimo in moltissimi campi rimane nelle mani dei governi (anche in quel settore dei conti pubblici che ha visto un forte aumento dei poteri di Bruxelles). Molte volte le iniziative comunitarie sono state riviste e corrette dai Ventotto, lasciando al grande pubblico l’impressione che la Commissione europea sia inefficace o impotente. L’esempio più eclatante è quello relativo all’immigrazione. Bruxelles ha proposto una riforma ambiziosa, che i governi successivamente hanno rivisto e che ancora oggi non è stata pienamente adottata. Il rischio poi è di apparire influenzabile al grande paese di turno. Ha notato questa settimana il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem: “Sono un po’ preoccupato. Le persone pensano che non solo l’opinione finale della Commissione è una decisione politica, ma che la stessa analisi” di bilancio “sia politicizzata”. Nello stesso modo in cui il doppio linguaggio dei politici – europeista a Bruxelles e nazionalista in patria – presta il fianco di molti governi agli attacchi dei partiti euroscettici, la doppia natura dell’esecutivo comunitario contribuisce alla disaffezione nei confronti di Bruxelles. A chi crede al futuro dell’Europa, l’unico suggerimento che si può dare a Jean-Claude Juncker – in questa fase di transizione nella quale la Commissione non è ancora il governo dell’Unione – è di tenere duro.
(Nella foto, Jean-Claude Juncker, 60 anni, presidente della Commissione europea dal 1° novembre 2015)