Gabriel Ringlet non ha nulla di un Giordano Bruno moderno. Anzi, probabilmente l’anziano prete considererebbe il confronto improprio. Accoglie il visitatore in una casa adiacente la sua prioria nella campagna della Vallonia belga con i modi cortesi di un bonario professore. Offre agli ospiti caffè, acqua e cioccolatini e la comodità di vecchie poltrone di cuoio mentre da un lucernaio un sole autunnale illumina il salotto. Nulla di primo acchito lascerebbe presagire che dal Belgio profondo il priore di Malèves-Sainte Marie sta contribuendo a cambiare la Chiesa cattolica. Da anni, ormai, Ringlet è la voce protestataria del Cattolicesimo belga. In passato non ha esitato a difendere il matrimonio tra divorziati o a interrogarsi sul celibato dei preti. Da qualche settimana è in libreria, pubblicato da Albin Michel, un libro più controverso e più solforoso di altri. In V<i>ous me coucherez nu sur la terre nue</i>, una citazione di San Francesco, a 71 anni il priore difende l’eutanasia, prendendo le distanze dalla dottrina del Vaticano. Addirittura, ammette pubblicamente che da alcuni anni accompagna alla morte i pazienti in fin di vita.
«Non credo che il dibattito debba essere tra coloro a favore dell’eutanasia e coloro contrari all’eutanasia – spiega Ringlet –. Quando non si ha altro modo per ovviare a sofferenze immani, il problema non si pone. Tanto vale che il tutto avvenga il meglio possibile, da un punto di vista umano e spirituale». Dal 2002, il Belgio, come altri Paesi del Nord Europa, consente in casi molto specifici l’eutanasia, ossia l’uccisione del paziente per mano di un medico, dinanzi ai progressi scientifici di una medicina che riesce a mantenere artificialmente in vita anche i malati più gravi.
«Qualche anno fa ricevetti una telefonata da un medico dell’ospedale Saint Pierre di Ottignies, Corinne Van Oost, una signora cattolica praticante, chiedendomi se fossi disponibile ad accompagnare i pazienti verso l’eutanasia. Nel mio libro racconto la storia di una suora carmelitana, molto ammalata, incapace di respirare normalmente, che chiedeva l’eutanasia pur in preda a una enorme angoscia spirituale. La signora Van Oost vuole che io sia presente mentre l’atto viene praticato. E io cerco di creare un rito, con l’accensione di una candela, la lettura di poesie, l’uso di olii essenziali».
Prete dal 1970, Ringlet ricorda di avere prestato il servizio militare da infermiere e di essere stato cappellano di un ospedale per 10 anni. Giornalista, professore, teologo, è stato per 20 anni vice rettore e poi pro rettore dell’Università cattolica di Lovanio. Sull’eutanasia spiega di non essere d’accordo con la dottrina dei vescovi belgi. Condivide la scelta dei prelati di rifiutare l’accanimento terapeutico e di accettare le cure palliative per i pazienti più gravi, ma non capisce come la Chiesa del Belgio possa accettare la sedazione e al tempo stesso condannare l’eutanasia. «Sedare significa addormentare il paziente definitivamente, uccidendo l’ammalato poco alla volta, mentre l’eutanasia comporta la sua morte immediata – nota Ringlet –. Io credo che siano la stessa cosa». L’autore, che da pro rettore di Lovanio fece costruire sul campus universitario una moschea, ha inviato il suo volume a tutti i vescovi del Belgio, pronto a un dibattito pubblico su «una questione etica forte». Il tema dell’eutanasia provoca nel priore una angoscia spirituale. In fondo, accettare l’eutanasia non significa forse ammettere che un miracolo non sia più possibile?
Nel suo libro, Ringlet propone di «non sottostimare la forza dell’impotenza divina». La presa di posizione è dirompente, ed è difficile immaginare opinione più controversa per una Chiesa che celebra la fede in «Dio padre onnipotente». Ribatte Ringlet: «Credo a un Dio fragile, altrimenti non capirei il problema del Male se Dio fosse onnipotente. Se invece lo considero fragile, diventa per me che sono in sofferenza una forza formidabile. Mi piace citare Fiodor Dostoevskij, che diceva: Se l’inferno esiste, Dio vi si trova; e non lo lascerà finché l’ultimo degli uomini non lo avrà lasciato».
Come non chiedersi a questo punto come sia possibile che Ringlet non sia stato escluso dalla Chiesa? «Fa onore al Belgio. La Chiesa in questo Paese accetta il dibattito, nonostante Monsignor Léonard…», risponde il priore. Il primate del Belgio, André Léonard, è stato in questi anni la voce ortodossa del Vaticano in questo piccolo Paese del Nord Europa. Dimissionario per raggiunti limiti di età, l’arcivescovo di Malines-Bruxelles è stato appena condannato da un tribunale di Liegi a indennizzare la vittima di un prete colpevole di pedofilia e protetto “passivamente” dall’alto prelato. Il priore di Malèves-Sainte Marie non nasconde la difficile relazione che ha avuto in questi anni con Monsignor Léonard, e lascia intendere che il suo rapporto con il precedente primate del Belgio, il fiamminga Godfried Danneels, era migliore. Più in generale, Ringlet attribuisce la tolleranza della Chiesa belga «all’autorità morale dell’Università di Lovanio» e al confronto acceso tra cattolici e laici, un contrasto forse più radicale di quello tra fiamminghi e valloni. Pur cattolico, l’ateneo è finanziato completamente dello Stato. L’anziano prete belga si permette quindi di celebrare una liturgia – «non un matrimonio canonico» – per omosessuali o divorziati concedendo loro la comunione. In questo contesto, Ringlet vede nell’elezione alla guida della Chiesa di Roma del nuovo Pontefice Francesco nuove prospettive per il Cattolicesimo romano. «Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si erano esclusi dalla relazione con il mondo quotidiano – analizza il priore –. Vi era una spaccatura tra il vertice della Chiesa e la società. Il nuovo Papa ha cambiato il tono e lo status della parola, imponendo una nuova trasparenza».
Il Belgio – dove il matrimonio tra omosessuali è permesso dal 2003 – appare lontano dal dibattito di una Italia nella quale neppure l’unione civile è prevista dalla legge, per non parlare dell’eutanasia. «Il confronto tra laici e cattolici è più antico da noi. Mi augurerei che anche l’Italia possa avere un confronto altrettanto fruttuoso. Non si tratta di relativizzare tutto. Piuttosto, le convinzioni dell’altro devono permettere di riflettere su se stessi e sulla propria fede. In Italia, bisogna capire che l’apertura morale non è la fine del mondo e che anzi può dare fondamenta a una società assai più di quanto non si creda».
Mentre accompagna il visitatore verso l’uscita della sua dimora a una quarantina di chilometri a Sud di Bruxelles, mostrandogli nell’incavo della parete una miriade di statuine di preti e suore – «prendo in giro la mia professione», dice sorridendo, quasi a completare sfacciatamente il quadro che ha dato della Chiesa ufficiale – Ringlet torna al tema del suo ultimo libro. Sottolinea che il suo impegno nell’accompagnare i malati alla morte artificiale non avviene certo a cuor leggero. «Il mio coinvolgimento consente in fondo a tutti i partecipanti di riflettere profondamente sul passo che stanno per compiere. Il cattolicesimo aperto che prevale in Belgio mi permette di influenzare fino all’ultimo la scelta. In un cattolicesimo chiuso come quello italiano, il rischio è di rafforzare le derive e di contribuire a scelte fatte in segreto e troppo rapide». Ad ascoltare il priore di Malèves-Sainte Marie, una parte consistente della classe politica italiana appare ben più conservatrice (e opportunistica?) di alcuni esponenti della stessa Chiesa cattolica.
B.R.