I negoziati su un nuovo salvataggio della Grecia, in gravissime difficoltà finanziarie, proseguono in queste ore tra i creditori internazionali e il paese mediterraneo. Un accordo sembra possibile, ma l’incertezza rimane elevata. Qualche giorno fa, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha spiegato che l’esecutivo comunitario ha preparato un rapporto dettagliato su come gestire una eventuale uscita della Grecia dalla zona euro, un Grexit come ormai viene chiamato comunemente. Secondo una persona che ha avuto modo di leggere il rapporto (di alcune centinaia di pagine), la relazione precisa le varie tappe molto pratiche di una separazione monetaria: la ridenominazione della valuta, dei titoli obbligazionari e azionari così come dei prezzi di beni, prodotti e servizi; la creazione di un nuovo sistema di pagamento; la stampa e il conio di nuove banconote e di nuove monete; l’installazione di nuovi distributori di denaro. “Se dobbiamo valutare l’impatto di un eventuale Grexit, direi che per la zona euro non sarebbe un grave problema – spiega un alto responsabile europeo -. Per la Grecia, invece, sarebbe un grande problema”. La valutazione, naturalmente, non prende in considerazione le implicazioni politiche di una uscita del paese da una unione monetaria. Notava a questo riguardo un diplomatico europeo di alto rango nei giorni scorsi: “Da oltre 50 anni, l’Unione si è gradualmente ingrandita, allargata. L’uscita della Grecia sarebbe uno spartiacque: per la prima volta l’Unione perde un vagone, mentre finora ne ha sempre guadagnati di nuovi. L’impatto politico potrebbe essere travolgente”. Il piano della Commissione europea ha tratto ispirazione dalle molte separazioni monetarie che hanno caratterizzato la storia dell’Ottocento e del Novecento, a iniziare dalla dissoluzione della zona del rublo con la fine dell’Unione Sovietica. Due esempi tuttavia sono citati più frequentemente qui a Bruxelles: l’uno positivo, il divorzio di velluto tra cechi e slovacchi nel 1993; l’altro negativo, la disintegrazione dell’impero austro-ungarico nel 1918. Il primo esempio è avvenuto senza eccessivi problemi. Nel febbraio 1993, cechi e slovacchi optarono per la separazione e la fine della corona cecoslovacca. Da mesi, tuttavia, la questione era stata studiata a livello tecnico e politico, da quando la Slovacchia aveva optato per l’indipendenza, il 17 luglio 1992. In un primo tempo per limitare il trasferimento di denaro dalla povera Slovacchia alla più ricca Repubblica ceca furono introdotti controlli dei capitali e una unione monetaria. Poi successivamente, fu effettuata una conversione valutaria, con la nascita di due corone, quella ceca e quella slovacca. L’operazione ebbe successo, secondo quanto raccontano due professori dell’Università di Princeton Peter M. Garber e Michael G. Spencer in un articolo accademico del 1994 per la rivista Essays in International Finance, perché fu preparata in precedenza e associata a una politica monetaria e di bilancio particolarmente rigorosa. Lo stesso non può dirsi per la disintegrazione dell’Impero austro-ungarico, una zona monetaria unica retta da due monarchie. La sconfitta nella Grande Guerra comportò la dissoluzione dell’impero e la nascita di cinque nuovi paesi: la Cecoslovacchia, la Romania, la Iugoslavia, l’Austria e l’Ungheria. Fu deciso di effettuare la separazione monetaria in due tappe: la prima con la stampa di nuove corone austro-ungariche nelle nuove aree monetarie; e poi la seconda con la conversione di questo denaro nelle nuove valute nazionali. Come racconta lo storico Richard Roberts in un articolo del 2011 pubblicato dalla rivista History & Policy, l’operazione, tuttavia, avvenne in modo scoordinato. Mentre la Cecoslovacchia creò subito una banca centrale indipendente, che non potendo prestare al governo riuscì a stabilizzare la nuova valuta, l’Ungheria e l’Austria – impoverite dal conflitto – iniziarono una difficilissima traversata del deserto, segnata da cospicui deficit ed elevata inflazione. Se mai la Grecia e i suoi partner dovessero optare per una separazione monetaria, l’anello debole sarà rappresentato in primo luogo dagli istituti di credito greci che non potranno più godere dell’aiuto finanziario della Banca centrale europea. “Il 40% del loro capitale – spiega l’alto responsabile europeo – è in crediti d’imposta che dovranno essere svalutati a seguito del mancato pagamento dei suoi prestiti al Fondo monetario internazionale e del fallimento del paese. Le banche si scioglierebbero in pochi secondi”.
(Nella foto, un biglietto di venti corone austro-ungariche del 1913. Sulla banconota le parole “venti corone” sono nelle varie lingue dell’Impero, tra cui l’italiano)