Un rapporto della Commissione europea ha sottolineato questa settimana (ancora una volta) quanto la giustizia civile possa essere lenta in Italia rispetto agli altri paesi dell’Unione. Attribuire le colpe della lentezza giudiziaria all’inefficienza della pubblica amministrazione rischia di essere il risultato di una analisi riduttiva. Alcune statistiche possono fare chiarezza. I tempi di un processo civile o commerciale è in media in Italia di 608 giorni. il paese è al terz’ultimo posto per la durata dei procedimenti. L’Italia fa meglio solo di Malta e Cipro. In Austria, la media è di 135 giorni, in Germania di 192 giorni, in Francia di 308 giorni. Francia e Italia hanno lo stesso numero di giudici per 100mila abitanti: 11. Sono 24 in Germania. Il numero di tribunali in Italia è diminuito del 40% tra il 2010 e il 2013. In Germania è sceso dell’1,7%, in Francia è aumentato dell’1,7%. I tre paesi spendono per la giustizia più o meno la stessa percentuale del reddito nazionale, tra lo 0,2 e lo 0,4% del prodotto interno lordo. Pro capite, la spesa è di 135 euro in Germania, 88 euro in Italia, 77 euro in Francia. In tre campi tuttavia, l’Italia si distingue in modo particolare. I casi pendenti sono molto più numerosi in Italia che nei suoi principali vicini: 5 per ogni 100 abitanti in campo civile e commerciale, rispetto a 1 in Germania e 2 in Francia. L’Italia conta poi 379 avvocati per ogni 100mila abitanti (il numero è aumentato tra il 2010 e il 2013), in Germania sono 200, in Francia 91. Il numero di ricorsi civili e commerciali è di tre per ogni 100 abitanti in Italia, due per ogni 100 abitanti in Francia. Che vi siano sacche di inefficienza nella funzione pubblica italiana è evidente. Basta aver fatto il servizio militare per rendersene conto fin da giovani. Attribuire però la lentezza dei processi semplicemente all’inefficienza della pubblica amministrazione rischia di essere sbagliato. C’è una endemica litigiosità italiana. Uno dei fattori è certamente l’iperregolamentazione. Troppe regole provocano incomprensioni, ricorsi e ingolfamenti. Non basta. In un paese che spesso non premia né il merito né la produttività del singolo – per scelte gestionali, accordi clientelari o intese sindacali, il cittadino finisce per sfogare nel sistema giudiziario vere o presunte ingiustizie personali. In un contesto dove la punizione è poco frequente e il licenziamento finora complicato, sul sistema giudiziario vengono poi scaricati gli errori dei singoli. In una amministrazione pubblica, ma spesso anche in una amministrazione privata, al giudice viene chiesto sovente di dirimere vicende provocate dalle facilonerie degli uni e dalle inefficienze degli altri, pur di mantenere il quieto vivere. In alcuni casi, alle parti conviene chiedere l’intervento di un terzo perché entrambe colpevoli, in un modo o nell’altro. In altri casi, al ricorrente la contestazione è fonte di frustrazione e angoscia; ma è anche il tentativo disperato di avere una decisione obiettiva, e di uscire da un circolo vizioso di angherie e soprusi. Il tempo perso poi è compensato da risarcimenti piùo meno elevati. Di frequente, tutti o quasi vi trovano alla fin fine il loro tornaconto: il magistrato ha una ragion d’essere; l’avvocato è pagato lautamente; tra le parti c’è chi incassa un indennizzo e chi grazie al trascorrere del tempo e alla memora corta ottiene il quieto vivere. Accusare l’amministrazione pubblica di tutti i mali e in particolare della lentezza del sistema giudiziario rischia di essere una ennesima bugia nazionale; e riformare la giustizia rischia di essere se non inutile, insufficiente.
(Nella foto, Anthony Perkins nel film The Trial, del 1962, tratto dal romanzo Il Processo di Franz Kafka)