La crisi economica della zona euro continua a essere segnata dalle differenze culturali tra i paesi europei. Non mi riferisco tanto o solo alle divergenze che hanno caratterizzato il dibattito sulla mutualizzazione dei debiti statali, sui salvataggi sovrani, o sugli acquisti di debito pubblico da parte della Banca centrale europea. Più generale, penso al modo in cui i paesi affrontano la situazione economica, gli alti e bassi della congiuntura e in particolare delle valute. A proposito del cambio, l’indebolimento della moneta – del 6% contro il dollaro nell’ultimo mese – ha avuto effetti completamente diversi da paese a paese. Qui in Belgio, La Libre Belgique dedicava qualche giorno fa lunghi articoli sui benefici di un euro più debole nei confronti del dollaro. In Germania, nello stesso periodo, Der Spiegel spiegava in un minuzioso articolo tutti gli svantaggi dell’indebolimento della moneta unica. Iniziamo dal caso belga. La Libre citava nella sua edizione del 31 gennaio il capo economista della Federazione delle imprese belghe (FEB), Erward Roosens, secondo il quale i prodotti belghi sono diventati più competitivi: “Prima erano 10-15% troppo cari”. Lo stesso giornale presentava la posizione di altre società belghe, tutte felici per l’andamento del cambio. Alcune di esse spiegavano che non necessariamente bisogna esportare fuori dalla zona euro per approfittare dell’indebolimento della valuta unica. Notavano, per esempio, che chi partecipa all’assemblaggio di prodotti tedeschi ne beneficia per il semplice fatto che questi stessi prodotti si vendono meglio in Cina o in India. Di tutt’altro avviso erano i commenti raccolti da Der Spiegel. Riferendosi alla decisione della Banca centrale europea di acquistare debito pubblico, una scelta che potrebbe comportare un ulteriore calo della moneta, il settimanale illustrava tutti gli aspetti negativi di un euro debole. A sorpresa, Anton Börner, presidente dell’associazione degli esportatori (BGA), notava che una moneta forte esorta le società a essere più efficienti, più creative. Precisava Thomas Mayer, un ex capo economista di Goldman Sachs e di Deutsche Bank: “Oltre a ridurre le pressioni perché i paesi si modernizzino, un euro più debole frena l’innovazione nell’industria”. Carl Martin Welcker, l’amministratore del gruppo manifatturiero Kölner Schütte, metteva invece l’accento sull’aumento dei costi all’importazione di materie prime. Lo stesso vale per gli investimenti all’estero. Addirittura, Clemens Fuest, economista dell’istituto economico ZEW di Mannheim, spiegava che una accelerazione dell’indebolimento dell’euro potrebbe mettere in crisi la credibilità della stessa unione monetaria. La Germania continua ad avere dell’economia una visione morale. Non per altro, i tedeschi sostengono che la recessione di questi anni è una Anpassungsrezession, una recessione da aggiustamento provocata da un eccessivo indebitamento che va assorbito con riforme, risparmi e sacrifici. In occasione dell’unificazione tedesca, la scelta dell’allora cancelliere Helmut Kohl di effettuare un cambio uno-a-uno tra i due marchi tedeschi ha trascinato l’economia della ex DDR in crisi. Le cinque regioni della Germania orientale videro il proprio prodotto interno lordo crollare del 17% nel 1990 e del 35% nel 1991; la disoccupazione ufficiale salì al 20% (si disse ai tempi che quella reale era al 30%); il numero degli occupati scese da dieci a sei milioni.
(Nella foto, Anton Börner, il presidente dell’associazione degli esportatori BGA)
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