Il salotto di Petros Markaris riflette le radici culturali del suo abitante. Il visitatore intravede un'antologia di letteratura in tedesco, volumi di filosofia in greco, e di storia in turco. Il padre del commissario Kostas Charitos è un rappresentante del cosmopolitismo dell'impero ottomano. Di padre armeno, di madre greca, è nato 77 anni fa a Istanbul dove ha studiato in una scuola austriaca, retaggio nella ex Costantinopoli di un altro grande impero multiculturale, quello austro-ungarico. In un'Europa segnata da nuovi nazionalismi, il suo sguardo a cavallo tra diverse culture lo rende un originale osservatore della Grecia e delle sue debolezze.
Della crisi economica e politica che sta affliggendo il Paese lo scrittore ha tratto una trilogia di successo e una serie di romanzi gialli, pubblicati in Italia da Bompiani, e il cui protagonista, un poliziotto alla Maigret, è stato un testimone imbarazzato delle azioni più cruente della dittatura militare a cavallo degli anni 60 e 70. «A un certo punto bisogna affrontare le conseguenze della propria storia», spiega Markaris nel suo appartamento del quartiere di Kypseli, ad Atene. Dalla finestra sul balcone, aperta in una giornata di gennaio particolarmente mite, entra ed esce pigramente un gatto grigio un po' sovrappeso.
«In Grecia, l'aspetto oggi più pericoloso è l'assenza di un centro politico e le tensioni tra gli estremismi di destra e di sinistra». In un Paese attraversato nel Novecento da due dittature, una guerra civile e un conflitto mondiale, il clima non è rassicurante. A destra l'Alba Dorata, a sinistra Syriza, sono accusate di coltivare rapporti con ex anarchici e nuovi terroristi. Il 2013 è stato per la Grecia il sesto anno di recessione; la disoccupazione colpisce tre giovani su quattro. Mentre il Paese assume la presidenza dell'Unione europea, la stampa sottolinea le radici recenti della crisi: i bilanci truccati, la corruzione imperante, la politica corrotta.
Markaris, invece, guarda più lontano, ai tempi in cui Chateaubriand scriveva Itinerario da Parigi a Gerusalemme e Lord Byron combatteva i turchi a Missolunghi. «In due secoli abbiamo mancato tre volte l'appuntamento con la modernizzazione del nostro Paese. L'ingresso nell'Unione europea ha reso il Paese più ricco, ma i greci sono sempre stati poveri. Cosa succede a chi non è abituato a mangiare quando gli si offre finalmente la possibilità di saziarsi? I greci si sono ammalati per troppo agnello e troppe patate. Oggi la crisi offre al Paese una nuova opportunità per diventare un Paese moderno».
Nell'analisi dello scrittore (traduttore di Goethe e Brecht), il primo tentativo di modernizzazione risale all'inizio dell'Ottocento, quando Giovanni Capodistria, figura del l'indipendentismo greco contro Costantinopoli, cercò di abolire nella nuova Grecia i privilegi ottomani. Fu ucciso. Il secondo esperimento fu perseguito con l'arrivo al potere di Re Ottone, un bavarese. «Le differenze culturali erano troppo profonde, e i Wittelsbach furono deposti», malgrado l'arrivo in Grecia di una folta comunità tedesca, e la pubblicazione nel 1833 di un manuale di Adolph von Schaden dedicato a chi voleva trasferirsi nel nuovo Paese.
L'ultimo tentativo di modernizzazione fu alla fine dell'ultima guerra. Fallì dopo una cruente guerra civile. A chi imputare questi ripetuti fallimenti: all'esperienza ottomana e alla dominazione ortodossa? «La Chiesa ortodossa non ha mai cercato di modernizzarsi e in questo ha frenato la stessa modernizzazione del Paese». Fino all'arrivo al potere dei socialisti, nel 1981, il Paese non aveva neppure un'anagrafe civile: faceva fede il registro dei battesimi. «La colpa, tuttavia, è soprattutto della classe politica. Sia Nuova Democrazia che il Pasok hanno sempre coltivato strettissimi legami con la Chiesa».
La Chiesa ortodossa ha guidato l'indipendenza da Costantinopoli; e ancora oggi l'élite religiosa trae la sua forza dal senso di inferiorità che i greci soffrono nei confronti dei turchi. Ma a spiegare soprattutto l'arretratezza del Paese, la perdurante presenza di grandi famiglie politiche, dei Papandreu, dei Mitsotakis, dei Karamanlis che hanno paralizzato il ricambio della vita pubblica, è la mancata esperienza dell'illuminismo. Quattro secoli di dominazione turca hanno impedito alla Grecia di assorbire il pensiero di Montesquieu e di Rousseau. «Abbiamo – confessa Markaris – mancato la rivoluzione illuminista».
Il Paese non ha neppure avuto una rivoluzione industriale, tale da creare una borghesia forte e influente. Molti notano la mancanza di un equilibrio dei poteri, l'assenza di un contraltare all'esecutivo e si lamentano della qualità della democrazia greca. Più in generale, come in altri Paesi – e l'Italia è tra questi – la crisi economica e politica sta rimettendo in discussione antichi equilibri, dall'influenza della Chiesa al ruolo dell'establishment. La Grecia è il riflesso più evidente di un'Europa segnata da tensioni nazionalistiche, tragicamente in bilico tra una flebile ripresa economica e un pericoloso caos politico.
«Nel gestire la crisi l'Europa non è responsabile di tutto, anzi gli errori sono nostri, ma sta applicando il trattamento sbagliato», riassume Markaris, muovendosi nervosamente sulla poltrona del suo salotto. «I tedeschi credono di conoscere la Grecia perché conoscono Aristotele. Ma non si rendono conto delle differenze culturali. Non è possibile trasferire dall'oggi al domani l'esperienza tedesca agli altri Paesi». Senza forse rischiare la guerra civile come la Grecia, anche altri vicini europei appaiono terribilmente fragili, in balia di una classe politica debole, incapace di dare risposte convincenti allo sconquasso economico.
Dal ruolo della Chiesa ortodossa alla crisi del clientelismo diffuso, l'esperienza greca e lo smarrimento del Paese non appaiono poi così lontani da altre vicende nazionali dell'Europa meridionale. «La trasformazione politica è lenta», ammette lo scrittore. Troppo lenta per evitare il peggio? La domanda aleggia senza risposta mentre il visitatore lascia l'appartamento di Kypseli, gettando un ultimo sguardo a una vecchia fotografia in bianco e nero dei genitori Markalis risalente al primo dopoguerra. «Eravamo a Istanbul», conferma lo scrittore con un filo di nostalgia per una città che appare, ancor più alla luce dell'Europa di oggi, uno straordinario esperimento multiculturale.