FRANCOFORTE – C’è forse il rischio che l’inflazione tocchi il 4% questa estate, dopo il 3,7% registrato in maggio? Lorenzo Bini Smaghi, membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea, accetta la provocazione: “Se i prezzi delle materie prime agricole e petrolifere non aumentano ancora – risponde al Sole/24 Ore –, dovremmo registrare una progressiva riduzione dell’inflazione nei prossimi mesi. I dati relativi a maggio confermano però la nostra analisi. I rischi alla stabilità dei prezzi esistono e vanno contrastati”.
In questa intervista, Bini Smaghi, 51 anni, tratteggia un quadro di cauto ottimismo, almeno sul fronte della crescita; lascia intendere che un solo rialzo del costo del denaro potrebbe bastare per riportare l’inflazione sotto controllo; e mette l’accento sulla svolta intervenuta nelle relazioni monetarie transatlantiche, sottolineando come il rapporto sia ormai paritario: “Per la prima volta nella Storia l’Europa non è costretta a seguire gli Stati Uniti sul fronte dei tassi d’interesse”.
La Bce ha lanciato due settimane fa segnali di un prossimo aumento del costo del denaro, probabilmente in luglio. Ci può dare una conferma?
Le nostre ultime previsioni indicano che l’inflazione potrebbe rimanere oltre il 2% per i prossimi due anni e si stanno verificando rischi di rincorsa prezzi-salari, come conferma l’accelerazione dei costi unitari del lavoro oltre il 3% nel primo trimestre. Come possiamo chiedere a imprenditori e ai sindacati di non innescare una tale rincorsa standocene con le mani in mano, senza far nulla? Dobbiamo fare la nostra parte, altrimenti rischiamo che le aspettative d’inflazione aumentino. Diventerebbe allora molto più complicato e costoso riportarle sotto all’obiettivo del 2%.
Gli investitori sembrano non avere creduto all’ipotesi di un solo rialzo dal 4 al 4,25%.
Il mercato deve fare le sue valutazioni e abbiamo sempre detto che non è nostro compito dare indicazioni oltre il breve termine. L’orientamento preso in occasione dell’ultima riunione riguarda solo il breve periodo. A nostro avviso, date le attuali condizioni anche sui mercati, un tale inasprimento, che definirei significativo anche se solo di 25 punti base, dovrebbe essere efficace nel riportare l’inflazione entro l’obiettivo del 2% nei prossimi 18-24 mesi.
Come rispondete alle critiche provenienti da alcuni Paesi?
Mi sembra che gli aumenti dei prezzi siano talmente impopolari da aver convinto molti Governi ad accettare una stretta monetaria. Se l’inflazione dovesse sfuggire di mano il rallentamento economico rischierebbe di essere ancora più forte. Peraltro, l’aumento del costo del denaro servirà ad ancorare le aspettative di inflazione, con un effetto stabilizzante sui tassi d’interesse a lungo termine e la stessa economia ne trarrà giovamento.
La congiuntura nella zona euro è in rallentamento, ma ha retto la frenata mondiale meglio delle previsioni: siete rimasti sorpresi?
Per certi versi, sì. L’economia europea ha registrato importanti miglioramenti negli ultimi anni. Si pensi alla forte riduzione del tasso di disoccupazione, sui minimi da 25 anni. Non ci sono gli squilibri finanziari dell’economia americana. Inoltre, trae maggior beneficio dall’export verso i Paesi emergenti, in particolare quelli produttori di petrolio. Tuttavia, il rallentamento dell’economia mondiale è in corso e influisce anche sull’Europa. È probabile che il recente aumento del prezzo del petrolio lascerà i segni nella seconda parte del 2008. Se si confronta però la situazione attuale con quella degli anni 70, l’aggiustamento per ora è stato più lieve. Molti si sono dimenticati della recessione di quel periodo, con l’inflazione a due cifre e le domeniche a piedi… Dopotutto prevediamo una crescita quest’anno e l’anno prossimo dell’1,8 e dell’1,5%.
E per quanto riguarda la crisi finanziaria?
L’aggiustamento allo shock finanziario richiederà più tempo del previsto, ma se non ci sono forti discontinuità dovrebbe avvenire senza ripercussioni drammatiche sull’economia reale. Sarà comunque più lieve di quello registrato negli Stati Uniti.
In passato l’Europa ha sempre seguito il ciclo americano sul fronte dei tassi d’interesse. Questa volta, sembra avvenire il contrario: gli Stati Uniti seguono l’Europa, almeno nella consapevolezza del rischio inflazione. Cosa è successo?
Stiamo assistendo a un cambiamento strutturale importante, che deriva dal fatto che in passato c’era una sola valuta di riserva. Ora ce ne sono due, il dollaro e l’euro, così che anche gli Stati Uniti devono tener conto delle condizioni finanziarie e monetarie a livello mondiale. Lo abbiamo visto in queste settimane: gli annunci di politica monetaria della Bce hanno provocato un calo del dollaro, un aumento dei timori di inflazione negli Stati Uniti e segnali di possibili strette monetarie anche in America. Per la prima volta nella Storia l’Europa non è costretta a seguire gli Stati Uniti sul fronte dei tassi d’interesse. Con l’euro non siamo soltanto più protetti dalle turbolenze finanziarie ed economiche, siamo anche più autonomi. Peccato che a questo successo corrisponda oggi una crisi esistenziale dell’Europa, dopo il no referendario irlandese al Trattato di Lisbona.
A proposito: la vittoria del No irlandese contro il Trattato di Lisbona nel voto di giovedì 12 giugno giunge in un momento delicato, di crescenti divergenze economiche tra i Paesi della zona euro. Alle differenze economiche, ora si aggiungono anche divergenze politiche. Per la zona euro e per la Bce aumentano le difficoltà?
Direi di no. Dal punto di vista della moneta, e del governo dell’economia in generale, il Trattato di Lisbona non modifica praticamente niente rispetto al precedente. Per la Bce, il quadro di riferimento e i problemi rimangono gli stessi.
L’Europa non rischia però di dare ragione a coloro che dubitano del futuro dell’Unione senza una unità politica?
Ma c’è già una unione politica in Europa, perché mettere insieme la moneta e le regole di mercato comporta decisioni a forte contenuto politico. In realtà c’è una gran confusione sulla divisione di responsabilità all’interno dell’Europa, tra il livello nazionale e quello europeo. Ad esempio, si imputa spesso all’Europa la colpa di una crescita insufficiente allorché le politiche della crescita sono di competenza degli Stati membri e il processo di Lisbona non fa altro che confrontare i risultati dei Paesi membri in base ad alcuni indicatori. Se con la stessa moneta alcuni Paesi europei crescono allo stesso ritmo degli Stati Uniti, mentre altri sono indietro, significa che i problemi da risolvere sono soprattutto a livello nazionale, in termini di efficienza dei mercati, infrastrutture, istruzione.
B.R.