FRANCOFORTE – I regali natalizi sono molto spesso lo specchio di una famiglia, dei suoi principi e delle sue gerarchie. Possono essere costosi o sobri, grandi o piccoli, utili o superflui. In casa Porsche hanno un’impronta genetica. Per il Natale del 1920, l’ingegner Ferdinand Porsche non regalò a suo figlio un meccano o un libro. Piuttosto gli costruì di tutto punto un’automobile in miniatura, dotata di un motore a quattro tempi e due cilindri, sulla quale il bambino imparò a guidare ad appena undici anni.
A 12 anni il ragazzo guidava già una delle prime vetture da corsa, la Austro-Daimler Sascha che aveva appena vinto la Targa Florio in Sicilia. Pochi anni più tardi, era diventato talmente bravo che le autorità cittadine di Stoccarda gli dettero un permesso speciale per guidare in città a soli 16 anni. «Si potrebbe dire che sono nato con l’automobile», disse un giorno Ferdinand Anton Ernst Porsche. Lo stesso possono dire tutti i membri di una famiglia che ha la benzina nelle vene, come ha scritto un commentatore austriaco.
Dopo essere rimasti nell’ombra per gran parte del XX secolo, i Porsche oggi sono sotto ai riflettori. Questa settimana la famiglia ha annunciato un’operazione industriale che porterà alla creazione di un ambizioso impero automobilistico del valore di circa 150 miliardi di euro. Nel medio termine l’iniziativa permetterà alla cassaforte di famiglia, la Porsche, di controllare la Volkswagen e a cascata la Man e la Scania, riunendo sotto uno stesso tetto vetture da corsa e utilitarie, ammiraglie e Tir, camion e trattori, veicoli pesanti e jeep.
L’iniziativa non ha solo motivi economici, ma è segnata anche da ambizioni dinastiche, legami di sangue e il desiderio recondito di riportare nell’alveo famigliare la Volkswagen, nata a suo tempo per mano di Ferdinand Porsche, onorando così la memoria del capostipite. L’operazione porta la firma del nipote, Ferdinand Piëch, 70 anni, azionista di Porsche, ex presidente del consiglio di gestione e attuale presidente del consiglio di sorveglianza di Volkswagen. Molti lo definiscono senza scrupoli, altri dicono che è geniale.
In una recente biografia intitolata Der Automacher, la saggista tedesca Rita Stiens spiega che Piëch «non vive della sua eredità, ma per la sua eredità». Scoprire una famiglia tra le più ricche della Germania e protagonista da 130 anni della storia dell’automobile diventa allora cruciale per capire un’operazione che avrà ripercussioni mondiali. Oggi i Porsche vivono tra Germania e Austria, tra Stoccarda, nel Baden-Württemberg e Zell am See, nei pressi di Salisburgo, ma le loro radici risalgono all’Impero austro-ungarico.
Il capostipite Ferdinand Porsche nasce nel 1875 a Mattersdorf, in Boemia. Studia in un istituto tecnico della regione e nel giro di qualche anno, nel 1893, si trasferisce nella Vienna della Belle époque per lavorare in una società, la Jakob Lohner, che ai tempi costruiva carrozze per la famiglia dell’imperatore Francesco Giuseppe. Il momento è cruciale: a cavallo del secolo l’Europa è in una fasediforte modernizzazione e l’automobile è sul punto di spiccare il volo per diventare uno strumento della vita quotidiana.
Negli Stati Uniti la produzione di vetture passa da quattromila all’anno nel 1900 a 180mila nel 1910 a 550mila nel 1914 a un milione e mezzo nel 1916. L’automobile nonè più un veicolo di lusso, ma un mezzo di locomozione. Dopo lunghi periodi trascorsi in Germania e in Austria, alla Austro- Daimler e alla Daimler Motoren, il vecchio Porsche decide nel 1931 di fondare la propria azienda. D’altro canto il cinquantenne ingegnere austriaco era ormai noto in tutta l’Europa del Nord: nasce quindi a Stoccarda lo studio di progettazione Dr. Ing. h.c. F. Porsche GmbH.
È in questo contesto che incontra Adolf Hitler, partecipa alla fondazione di Volkswagen e mette a punto il Maggiolino. Secondo Wolfgang Fürweger, un saggista austriaco autore di Die PS-Dynastie, Ferdinand Porsche si iscrive al partito nazista, ma la sua non è vera convinzione, piuttosto una scelta dettata dalle circostanze. Poco importa: dopo essere sopravvissuto alla guerra, rifugiandosi in Austria, e aver trascorso 20 mesi nelle prigioni francesi con l’accusa di collaborazionismo, il vecchio Porsche torna a Stoccarda, dove morirà nel 1951 a seguito di un infarto.
Intanto, la sua azienda stava iniziando a cavalcare il miracolo economico del dopoguerra. Dopo aver ricevuto in regalo per il Natale del 1920 un’auto in miniatura, Ferdinand Anton Ernst, detto Ferry, prende le redini della società. Non si iscrive mai all’università, ma riceve lezioni direttamente dal padre, studia fisica e ingegneria, e mette a punto uno dei modelli più venduti, la 356. Alla morte del vecchio Porsche la società è divisa equamente tra i due figli: Ferry e Louise, di cinque anni più anziana.
La scelta fa discutere. Ferry spiegò un giorno: «Sarebbe stato più giusto se mio padre avesse seguito l’esempio dei Rothschild: uno prende le responsabilità, l’altro esegue le decisioni». Molti osservatori tedeschi e austriaci credono che questa scelta possa avere creato confusioni di ruolo e magari rivalità tra i Piëch e i Porsche. Nel frattempo, infatti, Louise, si era sposata con un avvocato viennese, Anton Piëch da cui ebbe quattro figli, tra i quali il protagonista di oggi, Ferdinand.
Per i Porsche, l’azienda di Stoccarda, che nel 1962 tocca le 50mila auto vendute, è il cuore pulsante della famiglia: un’eredità da salvaguardare e una fonte di ricchezza, ma anche una palestra di vita e per molti semplicemente un luogo di lavoro, nel marketing o nella progettazione. In questo senso Louise Porsche Piëch, scomparsa nel 1999, ha detto un giorno con sottile understatement: «Ho sempre e solo guidato automobili della mia famiglia. Prima quelle di mio padre, poi quelle di mio fratello, infine quelle di mio figlio».
Nato a Vienna nel 1937, l’anno in cui fu fondata la Volkswagen, Ferdinand Piëch studia ingegneria meccanica in Svizzera, scrivendo una tesi sul motore di una vettura da Formula 1, e trascorre i primi anni della sua vita professionale nell’azienda di famiglia, tra il 1963 e il 1971. Il passaporto è austriaco, ma l’amore per la tecnica è tedesco e contribuisce alla nascita di due modelli di successo la 906 e la 917. Ma i legami famigliari sono tesi. La decisione di vietare a qualsiasi membro della famiglia di avere compiti di gestione in Porsche induce Piëch a lasciare.
Ferdinand si trasferisce quindi alla Audi, poi alla Volkswagen, salendo con rapidità gli scalini della gerarchia manageriale, fino a diventare presidente del consiglio di gestione nel 1993 e del consiglio di sorveglianza nel 2002. Nominato manager automobilistico del secolo nel 1999, Piëch non ama le luci della ribalta e – anche se ha avuto quattro mogli e dodici figli – si dice che le sue abitudini alimentari siano morigerate: una tazza di caffè con un po’di miele la mattina, una minestra a colazione, un bicchiere di vino ogni tanto.
Temuto, ammirato, combattivo, vero padre-padrone: «Ci sono vincitori e perdenti – ha detto un giorno – io voglio essere un vincitore». E ha aggiunto: «Ho sempre avuto l’ambizione diguidare un’impresa più grande di quella di mio nonno». Eppure durante il suo lungo periodo in Germania si sente un Gastarbeiter, un lavoratore ospite in "esilio professionale". Stiens racconta che nonostante i molti anni trascorsi nella Repubblica federale «Piëch è a casa solo in Austria, nella sua lingua, nella sua natura e nella sua mentalità».
Il rifugio della famiglia, di religione cattolica ma di abitudini calviniste, è Zell am See, nelle Alpi austriache, dove il vecchio Ferdinand acquistò negli anni 40 una grande proprietà chiamata Schüttgut. La località ha novemila abitanti, il luogo è lontano dai palcoscenici del jet set e dalle grandi capitali internazionali; ma assicura ai Porsche e ai Piëch discrezione e rispetto. Con la decisione di scalare Volkswagen, un’azienda parzialmente in mano pubblica e 14 volte più grande di Porsche, riuscirà la famiglia a salvaguardare la sua privacy?
È la grande incognita del momento per un nucleo famigliare che ormai conta 60 membri. Per non parlare delle inevitabili rivalità: tra chi crede semplicemente alla massimizzazione dei profitti e chi invece coltiva ambizioni più industriali. Nessuno dei Porsche però smentirebbe probabilmente Wolfgang, figlio di Ferry e cugino di Ferdinand, che riferendosi al matrimonio con Volkswagen ha detto: «Mio padre e mio nonno ne sarebbero stati contenti».
B.R.