Qualche giorno fa, in piena campagna elettorale in vista del voto del prossimo aprile, il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha spiegato ai suoi compatrioti che la generosità svedese nell’accogliere rifugiati e immigrati in questi anni ha fatto cadere il paese in una forma di “barbarie dove molti criminali sono minorenni”.
Il premier svedese Ulf Kristersson ha risposto con una lunga dichiarazione su X nella quale ha ricordato con una punta di retorica soddisfazione i gesti di generosità che il suo paese ebbe nei confronti degli ungheresi durante la guerra, e poi nel 1956, in occasione dell’intervento sovietico.
Il primo ministro svedese avrebbe potuto ricordare un altro episodio, assai meno noto, di cui si celebra proprio in questi giorni a Malmö l’80mo anniversario.
Nei primi mesi del 1945 la Svezia, ai tempi neutrale, organizzò una clamorosa operazione di salvataggio dei cittadini scandinavi prigionieri nei campi di concentramento nazisti.
I negoziati furono condotti dal vicepresidente della Croce Rossa Svedese Folke Bernadotte, che prese contatto con Heinrich Himmler, allora ministro degli Interni, capo della Gestapo e tra gli ideatori del massacro sistematico degli ebrei.
I due si incontrarono quattro volte. Himmler negoziò all’insaputa di Adolf Hitler. Evidentemente aveva capito che la Germania avrebbe perso la guerra, e voleva probabilmente con questo gesto ingraziarsi un qualche appoggio da Stoccolma dopo la fine del conflitto (si sarebbe invece suicidato da lì a poco, il 23 maggio del 1945).

In un primo tempo dovevano essere rimpatriate solo le donne con bambini, le persone anziane o ammalate, di nazionalità danese o norvegese. Poco alla volta, Himmler si dimostrò sempre più generoso. Nell’ultimo dei quattro incontri, il 21 aprile, accettò che le autorità svedese rimpatriassero anche cittadini di religione ebraica.
L’operazione di salvataggio avvenne con autobus dipinti di bianco, tappezzati di grandi croci rosse, e scortati da motociclette (si veda la foto a fianco). In tutto 15.500 persone furono trasferite in Svezia, di cui metà di nazionalità scandinava e altri settemila di nazionalità polacca. Almeno quattromila erano ebrei. Altri 1.500 svedesi residenti in Germania furono anch’essi rimpatriati.
Parteciparono all’operazione 36 autobus dell’esercito svedese e 308 volontari. L’iniziativa fu completata il 1° maggio del 1945, prima quindi della fine del conflitto (la resa della Germania fu firmata il 7 maggio).
In questi giorni, una mostra nel Castello di Malmö racconta che presto durante le operazioni di trasferimento in Svezia le strutture di accoglienza in città furono oberate.
Il direttore del Museo di Malmö, Ernst Fischer, decise quindi di accogliere fino a duemila rifugiati nel castello cittadino, risalente al Quattrocento. Le persone provenivano in larga parte dalla Polonia, dall’Olanda, dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dal Belgio. C’erano anche un colonnello cinese e uno studente americano.
Le regole della convivenza erano ferree. I rifugiati erano mantenuti in quarantena, non potevano fumare nei dormitori, andare a letto con le scarpe ai piedi e discutere di qualsiasi tema politico. Chi non era ammalato doveva contribuire alla pulizia delle camerate e al lavaggio dei piatti in cucina.
Di questi tempi, mentre gli Stati Uniti espellono i sans-papiers, l’Europa vuole appaltare all’estero le richieste di asilo e Israele rade al suolo la Striscia di Gaza, la vicenda merita di essere ricordata.