Sarà una ripresa dei lavori dopo la pausa estiva tutta in salita quella dell’establishment comunitario. In poche settimane, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, l’immagine dell’Unione europea è stata scalfita da una serie di decisioni. Proviamo ad elencare le situazioni controverse che si sono succedute tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate.
La serie inizia con il vertice della Nato in giugno a L’Aja. I paesi membri sono stati costretti ad accettare la richiesta americana di aumentare la spesa militare per portarla al 5% del prodotto interno lordo. L’Europa vuole investire di più in difesa, ma è lecito chiedersi se il metodo imposto dall’America sia il più congeniale ai suoi interessi.
Successivamente la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha ottenuto con difficoltà un voto di fiducia in Parlamento. Con 360 voti contrari, 175 a favore e 18 astensioni, una mozione di censura è stata respinta, ma la vicenda fa temere altre iniziative simili da parte dell’opposizione più radicale.
In agosto, i Ventisette hanno siglato un accordo commerciale con gli Stati Uniti particolarmente squilibrato. L’intesa prevede acquisti europei di gas e petrolio così come investimenti in America, oltre che nuovi dazi commerciali americani (con una aliquota del 15%). Nelle trattative con Washington, sia il Canada che il Messico appaiono aver fatto meglio.
Osservava con amarezza nei giorni scorsi un diplomatico europeo: “Certo possiamo dire di non esserci suicidati, ma è un po’ come se avessimo accettato di essere messi in carcere”. Bruxelles ha optato per la stabilità, ma, come ha scritto su Le Figaro l’ex commissario europeo Thierry Breton, “senza garanzie di perennità”.
Ultimamente è l’Ucraina a occupare la scena. L’Unione europea è ostaggio del buon volere americano, da cui in ultima analisi dipendono le garanzie di sicurezza che Kiev chiede in cambio di una intesa con la Russia in vista di un cessate-il-fuoco e di un accordo di pace. La posizione europea è complicata dall’impegno assunto nei confronti di Kiev su una prossima adesione all’Unione. Come minimo la scelta lega le mani di Bruxelles mentre si discute di eventuali scambi territoriali.

Sullo sfondo, infine, spicca l’indecisione europea sul fronte medio-orientale. Le divisioni tra i paesi sul modo in cui reagire alle scelte israeliane a Gaza non rafforzano certo la postura internazionale dell’Unione. Nel frattempo, la presentazione in luglio da parte di Bruxelles della proposta di bilancio 2028-2034 metteva in luce imbarazzanti tensioni nel collegio dei commissari.
A Bruxelles, in questi giorni l’aria è pesante. Il presidente del Consiglio europeo António Costa ha appena annunciato un giro di tre settimane delle capitali europee, con l’obiettivo di discutere “i prossimi passi”, ha detto un funzionario europeo. L’ex premier portoghese, ha aggiunto, è convinto che “l’autonomia strategica dell’Europa è più essenziale che mai”.
“In qualità di presidente del Consiglio europeo – ha scritto António Costa in un comunicato – è mio dovere ascoltare e comprendere le priorità di tutti i leader, specialmente in questi tempi incerti. Il mio ruolo è quello di costruire il consenso. Ad ogni visita, mi impegnerò a rafforzare la nostra cooperazione, perché nel mondo imprevedibile di oggi la nostra unità è la nostra più grande forza”.
Lo sguardo poi corre al discorso sullo Stato dell’Unione che la presidente von der Leyen pronuncerà dinanzi al Parlamento europeo il 10 settembre prossimo. L’immagine dell’ex ministra tedesca ha perso improvvisamente smalto, soprattutto dopo il voto di fiducia del 10 luglio scorso (nelle file della maggioranza erano assenti una trentina di Socialisti, una ventina di Popolari e una decina di Liberali).
In molti paesi, con una punta di malcelato opportunismo politico, l’establishment nazionale imputa alla Commissione europea le scelte più controverse, in particolare un accordo commerciale squilibrato con gli Stati Uniti. L’accusa è ingenerosa: sappiamo che Bruxelles ha negoziato mano nella mano con i paesi membri.
Eppure, la posizione della signora von der Leyen è debole, anche per via delle voci rilanciate da Der Spiegel di una sua candidatura alla presidenza della Repubblica in Germania nel 2027 (il mandato a Bruxelles termina nel 2029). Non sappiamo quanto queste voci siano realistiche (sono state smentite), ma certo in questa fase non aiutano a rafforzare la sua posizione.
In questi anni la presidente von der Leyen ha deciso di gestire la Commissione europea in modo personalistico e centralista. A molti osservatori, la scelta non è mai sembrata lungimirante. Oggi questa stessa scelta mette l’ex ministra a rischio di diventare il fusibile da far saltare nel caso i Ventisette decidano di girare pagina e di annunciare un nuovo inizio. La possibilità è remota, ma non per questo può essere esclusa d’emblée.