L’atteggiamento combattivo del premier ungherese Viktor Orbán nell’ultimo vertice europeo della settimana scorsa ha suscitato non pochi commenti preoccupati. Grazie al suo potere di veto, l’uomo politico ha bloccato il benestare di nuovi aiuti all’Ucraina e soprattutto l’adozione di una revisione del bilancio comunitario 2021-2027.
Più in generale il primo ministro è diventato l’elemento perturbatore nella classe europea. Negli ultimi mesi ha criticato l’appoggio occidentale all’Ucraina nella sua guerra contro la Russia, incontrando prima a Mosca e poi a Pechino il presidente Vladimir Putin, ormai persona non grata negli altri Stati membri. In ottobre ha poi definito l’Unione europea “una cattiva parodia” dell’Unione Sovietica.
In un articolo venerdì scorso sul Financial Times, lo studioso bulgaro Ivan Krastev, autore di After Europe (tradotto in italiano dalla casa editrice dell’università LUISS con il titolo Gli ultimi giorni dell’Unione), ha avvertito che “se l’Unione europea non riesce a risolvere la questione” rischia la paralisi, se non addirittura la disintegrazione.
Il giorno dopo su X (l’ex Twitter) un ex funzionario del Tesoro inglese e della Commissione europea, Mujtaba Rahman, ha sostenuto che “le relazioni tra l’Unione europea e l’Ungheria si sono probabilmente spezzate in modo irreparabile”. E ha aggiunto: “In ultima analisi, ci si sta dirigendo verso il punto di rottura”.
Tralasciamo per un attimo la sostanza delle posizioni di Viktor Orbán. Alcuni osservatori potrebbero dire che in fondo le sue posizioni sulla Russia o l’Ucraina non sono del tutto sbagliate. Purtroppo, venerdì parlando alla radio pubblica ungherese l’uomo politico ha confermato che il suo atteggiamento è legato anche, o soprattutto, al tentativo di strappare circa 20 miliardi di euro di fondi europei congelati per via di una deriva dello stato di diritto in Ungheria.
A Budapest viene rimproverato di penalizzare il pluralismo della stampa, i diritti degli insegnanti, la libertà degli omosessuali, l’attività delle organizzazioni non governative. Curiosamente, il contrasto tra Bruxelles e Budapest potrebbe avere interessanti paralleli storici.
Nel 1828, il Congresso americano adottò nuove tariffe doganali sui beni importati negli Stati Uniti. Il provvedimento protezionistico fu voluto dagli Stati del Nord, più moderni e industrializzati, ma non piacque agli Stati del Sud, dove nelle grandi piantagioni agricole dominava la schiavitù.
La Carolina del Sud decise di ignorare la legge, in un evidente atto di ribellione contro il nuovo potere federale. Da lì a pochi anni i tanti nodi politici e giuridici nella neonata federazione americana sarebbero sfociati in una guerra civile, che avrebbe imposto il potere del centro sulla periferia, almeno in alcuni ambiti.
Lo stesso avvenne più o meno nello stesso periodo in Svizzera. Fin dal 1840 i partiti più radicali e liberali, spesso protestanti e spesso cittadini, vollero imporre ai cantoni di allora una maggiore centralizzazione dei poteri. Si scontrarono contro l’opposizione delle classi più conservatrici, rurali e cattoliche.
Nel 1845 i cantoni cattolici si riunirono in un Sonderbund. Due anni dopo scoppiò una guerra civile, che solo in parte può essere definita religiosa. Lo scontro era soprattutto politico e riguardava principalmente gli equilibri di potere tra centro e periferia. Il conflitto terminò con la vittoria dei cantoni favorevoli a una maggiore centralizzazione dei poteri.
I paralleli tra la storia americana o svizzera e l’integrazione europea vanno manipolati con cautela. Troppe sono le differenze nei punti di partenza. Eppure, come non paragonare la Carolina o la Friburgo di ieri all’Ungheria di oggi?
In fondo, Budapest cerca disperatamente di difendere la propria autonomia, nello stesso modo in cui tentarono quasi due secoli fa lo stato americano e il cantone svizzero. Allora, vinse il processo di accentramento dei poteri, mantenendo comunque una autonomia a livello locale. Nel braccio di ferro tra l’Ungheria e i suoi partner la partita rimane aperta. La via del compromesso avrebbe il merito di evitare tensioni, ma rischia di far perdurare una Europa troppo confederale per sopravvivere. Sul tavolo in ultima analisi c’è la fine delle decisioni all’unanimità.