A proposito della guerra in Ucraina, qualche settimana fa ho fatto un parallelo con la Guerra di Spagna, ricordando le divisioni che questo conflitto aveva suscitato nell’opinione pubblica europea e internazionale, non dissimili da quelle causate dai combattimenti a Kiev. Questa volta le vicende attuali mi inducono a fare un ulteriore paragone, tornando su un altro momento della Seconda guerra mondiale: il raid giapponese contro Pearl Harbor.
Di primo acchito, l’attacco alla base americana nelle isole Haiwaii il 7 dicembre 1941 fu compiuto a tradimento. Avvenne nelle prime ore del mattino, senza avvertimento e mentre le parti stavano cercando di negoziare un modus vivendi nel Pacifico. Furono uccisi oltre 2.000 militari, distrutte varie navi e molti aerei. Nelle ore successive, gli Stati Uniti avrebbero dichiarato guerra contro il Giappone; la Germania e l’Italia contro l’America.
L’attacco provocò scalpore anche perché ufficialmente gli Stati Uniti erano stati fino a quel momento neutrali. A ben vedere una neutralità molto ambigua. L’escalation dei mesi precedenti aveva messo in luce quanto l’America fosse da tempo e nei fatti un co-belligerante in una guerra sempre più mondiale.
Mi affido per raccontare quei mesi a un classico delle relazioni internazionali: il volume di Jean-Baptiste Duroselle, Histoire diplomatique de 1919 à nos jours (uscito per la prima volta nel 1953, ma la mia edizione risale al 1990). Tra le altre cose, lo storico francese sostiene che “gli Stati Uniti avevano nettamente abbandonato la neutralità ben prima di Pearl Harbor”.
In effetti, dopo un primo periodo di neutralità, Washington intervenne indirettamente e sempre più spesso nel conflitto, diventando il principale fornitore di armi della Gran Bretagna nella sua battaglia contro la Germania di Adolf Hitler. Oltre a trasferire alla Royal Navy fino a 60 caccia-torpedinieri, la Casa Bianca garantì un prestito a Londra di un valore illimitato. Secondo il premier britannico Winston Churchill, queste misure sancirono “il passaggio dalla neutralità alla non-belligeranza”. A ben vedere, la non-belligeranza flirtava con la co-belligeranza.
In un colloquio radiofonico davanti al caminetto, una abitudine che tanto piaceva a Franklin D. Roosevelt, il presidente americano disse il 29 dicembre 1940 che gli Stati Uniti sarebbero diventati “il grande arsenale delle democrazie”. Nel frattempo, l’America rafforzò anche la sua presenza nell’Atlantico del Nord. Firmò nell’aprile del 1941 un accordo con la Danimarca per poter costruire basi militari, navali ed aeree, in Groenlandia. Nel luglio dello stesso anno, militari americani sbarcarono in Islanda.
La presenza sempre più minacciosa di Tokyo in Asia indusse Washington a decisioni preoccupantemente simili a quelle prese nelle scorse settimane contro la Russia. Il 25 luglio 1941 il presidente Roosevelt sequestrò i fondi giapponesi presenti negli Stati Uniti. Poche settimane prima aveva anche deciso di vietare l’esportazione di petrolio americano proveniente dai porti sull’Oceano Atlantico e sul Golfo del Messico.
Jean-Baptiste Duroselle scrive che nelle ultime settimane del 1941, agli occhi dei dirigenti giapponesi, “la considerevole riduzione delle forniture di prodotti petroliferi da parte americana e di molte altre materie prime rendeva necessaria una conquista rapida di Java, Sumatra, Borneo e della Malaysia”.