È con un sottile sentimento di Schadenfreude che gli europei del continente osservano tra lo stupito e il compiaciuto la situazione politica in cui versa il Regno Unito, dove il primo ministro Boris Johnson è accusato di aver organizzato direttamente o indirettamente delle feste al 10 di Downing Street in piena pandemia mentre il resto del paese era isolato a casa. Ai partecipanti era chiesto di portare “il proprio alcool”. Come se non bastasse, l’uomo politico, che in questi anni ha inanellato le vicende imbarazzanti, ha mentito spudoratamente: “Pensavo di partecipare a un evento di lavoro”.
Per decenni, l’Inghilterra ha vissuto di rendita nel suo rapporto con i vicini oltre-Manica, avviluppata in una aura di deferenza. Mentre sul continente non c’era paese o quasi che non soccombesse al Nazismo, sulla scia di una sanguinosa sconfitta o per scelta colpevole dei governanti locali, l’Inghilterra resisteva ad Adolf Hitler con orgoglio e coraggio. Le città venivano bombardate senza pietà, ma la popolazione optava per keep calm and carry on, come si diceva nel 1939.
Nel dopoguerra, il paese ha potuto godere di straordinario rispetto. Non solo aveva liberato l’Europa dal Nazismo, insieme agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica. Aveva una democrazia antica, un sistema politico stabile e dei governanti credibili. L’inglese era una Weltsprache che dava lustro alla Gran Bretagna, alle sue università e ai suoi media. La BBC è diventato un modello, vero o presunto, in molti paesi.
I Beatles e i Rolling Stones, la National Gallery e il British Museum, la Ribena e la Marmite, Agatha Christie e William Shakespeare sono stati per generazioni di europei le tappe obbligate di una educazione sentimentale che si rispetti. La stessa famiglia reale poteva apparire un anacronistico orpello, ma anche i più repubblicani dovevano ammettere che l’istituzione aveva un certo stile.
Negli inglesi abbiamo ammirato il senso dell’umorismo e le battute taglienti, le abitudini originali e l’eleganza naturale. Abbiamo loro perdonato l’autocompiacimento e anche l’atteggiamento altezzoso nei confronti della costruzione comunitaria così come la scelta (astrusa) di non voler imparare le lingue, imponendo nei fatti al resto dell’Europa la propria.
Le generalizzazioni nazionali lasciano il tempo che trovano. Ma se gli italiani sono schivi e inaffidabili, i francesi polemici ed arroganti, i tedeschi rigidi e ottusi, gli inglesi sono presuntuosi e supponenti.
Forti di una stampa dalla qualità innegabile, per decenni i giornali britannici hanno con incredibile lucidità, ma anche una buona dose di presunzione, distribuito le pagelle al resto dell’Europa. Silvio Berlusconi è stato definito “inadatto a governare” (The Economist, 2001), Gerhard Schröder un uomo da cui non era consigliabile acquistare una automobile usata (sempre The Economist, 1998).
Come dicevo, il resto dell’Europa guarda oggi alla Gran Bretagna con un inconfessabile sentimento di compiacimento nella sfortuna altrui, di Schadenfreude appunto. E non solo perché il Regno Unito dopo aver criticato l’Unione europea per quattro decenni sta pagando le conseguenze economiche, sociali e politiche della decisione di uscire sdegnosamente dalla costruzione comunitaria, tra supermercati vuoti, disintegrazione incipiente e piccolo cabotaggio giuridico pur di non applicare l’accordo negoziato e firmato con Bruxelles.
Sia Brexit che lo scandalo Johnson rimettono in prospettiva il mito inglese, nello stesso modo forse nel quale la presidenza di Donald Trump ha segnato la fine del mito americano. A 70 anni dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, l’aura di cui hanno goduto il Regno Unito e più in generale il mondo anglosassone si è improvvisamente dissolta.
In un recente dibattito ai Comuni, la deputata laburista Diana Johnson ha osato dire: “Quando un primo ministro passa il suo tempo a cercare di convincere il grande pubblico britannico di essere stupido piuttosto che disonesto, non è ora che se ne vada?”. L’aula di Westminster non è nuova a battute corrosive, anzi. Winston Churchill, e prima di lui Benjamin Disraeli, furono implacabili maestri del genere. In fondo, anche questa abitudine riflette un motto che, malgrado il momento, non è prossimo a sparire: Right or Wrong. My Country.
(Nella foto Reuters tratta da Internet, il premier Boris Johnson, 57 anni, mentre si difende nella Camera dei Comuni dopo la notizia delle feste a Downing Street durante il confinamento dettato dalla pandemia nel 2020)