L’Istituto Affari Internazionali (IAI) insieme alla Fondazione Compagnia di San Paolo e all’Università degli Studi di Siena ha pubblicato oggi un rapporto sul sentimento europeista degli italiani. Dal sondaggio emerge un aumento dell’europeismo rispetto ad aprile, quando in piena emergenza sanitaria l’immagine dell’Unione europea soffriva non poco. Lo studio demoscopico mi ha indotto a questa analisi commentata.
In aprile, il 48% degli italiani avrebbe votato per uscire dall’Unione; la percentuale è scesa da allora al 37%. Nel contempo, è aumentata la quota degli italiani che a un eventuale referendum voterebbe a favore della permanenza nell’Unione, dal 44 al 56%. L’immagine dell’Europa è migliorata tra i simpatizzanti di tutti i partiti italiani. Certamente in modo più accentuato tra gli elettori del Partito democratico e Forza Italia; assai meno tra i simpatizzanti di Lega e Fratelli d’Italia.
Il 55% degli italiani ritiene che l’Unione sta dando un sostegno inadeguato all’Italia (la quota era del 79% degli italiani in aprile), mentre il 49% degli italiani considera che l’Italia è trattata ingiustamente in materia di bilancio (la percentuale era il 69% in aprile). Favorevoli all’uso dei prestiti offerti dal Meccanismo europeo di Stabilità è il 64% degli italiani, e in particolare gli elettori del Partito democratico e di Forza Italia.
Lo studio, oggetto di un seminario on-line questa mattina, ha provocato interessanti interventi. Ettore Greco, vicepresidente dello IAI, ha definito il risultato del sondaggio “solo un rimbalzo dopo che in aprile il sentimento europeista degli italiani aveva raggiunto il punto storicamente più basso”. Ha aggiunto che altri sondaggi, quali l’Eurobarometro, continuano a segnalare che tra i Ventisette “rimaniamo tra i più insoddisfatti d’Europa”.
Giustamente, a mio modo di vedere, Ettore Greco – il quale ha parlato di “cauta, guardinga apertura di credito” – ha attribuito il rimbalzo alla scelta di Bruxelles di sospendere le regole di bilancio per via della recessione economica. In questi anni, l’euroscetticismo italiano è stato il riflesso delle pressioni comunitarie per una riduzione del debito pubblico, volano del familismo italiano. Smorzate le pressioni, ridotto il vincolo, cresce di conseguenza l’europeismo. Lo stesso Ettore Greco ha sottolineato come il sentimento europeista italiano dipenderà anche dal successo che avrà il Fondo per la Ripresa.
Presente allo stesso seminario, Sofia Ventura, docente di scienze politiche all’Università di Bologna, ha fatto notare che la visione italiana dell’Europa emersa dallo studio è dettata dalla “dimensione del do ut des”. Gli italiani amano l’Europa quando ricevono concretamente da essa. Viceversa, se hanno l’impressione di non ricevere, non l’ameranno. Nel contempo, la professoressa Ventura ha messo l’accento sulla domanda relativa al desiderio o meno di lasciare l’Unione: “Voterei per l’uscita dall’Italia dalla UE? Voterei per la permanenza dell’Italia nella UE?”.
Il quesito per come è posto, ha spiegato la professoressa, rischia di sovrastimare i sentimenti europeisti nella pubblica opinione: “La domanda mette l’interpellato dinanzi a ‘un salto nel buio’: rischia di rispondere di No all’uscita dalla UE per semplice cautela”. In questo senso, anche la signora Ventura è convinta che i dati dello studio demoscopico (basato su 1.000 interviste effettuate tra il 27 ottobre e il 2 novembre) non mostrino “un cambiamento strutturale”.
Peraltro, c’è da chiedersi quanto vi sia nella risposta degli italiani la consapevolezza del ruolo dell’Unione europea nel difendere un impianto democratico nei diversi paesi membri. A questo proposito, colgo l’occasione per rispondere ad alcuni lettori che difendono la posizione di Ungheria e Polonia nell’opporsi alla decisione di una maggioranza di paesi membri (25 su 27) di vincolare l’esborso di fondi comunitari al rispetto dello stato di diritto.
Un lettore, in particolare, sostiene che nell’Unione domini una idea dello stato di diritto dettata dalle “socialdemocrazie tedesca e francese”, e che quindi Varsavia e Budapest hanno tutto il diritto di difendere una loro diversa concezione dello stato di diritto, dettato da un governo che in Polonia e in Ungheria è “conservatore”. Mi limiterò ad osservare:
- I principi democratici sono elencati negli articoli 2-3 dei Trattati europei, redatti e approvati all’unanimità dai Ventisette. È certamente possibile rivederli, ma è necessario modificare i Trattati.
- Nessun paese è perfettamente democratico, come rivela regolarmente la Corte europea dei diritti dell’Uomo. Ciò detto, sia l’Ungheria di Viktor Orbán che la Polonia di Mateusz Morawiecki sono state oggetto di procedure di infrazione e sentenze della Corte europea di Giustizia. La prima per avere tentato di irreggimentare le università straniere; la seconda per avere ridotto l’indipendenza della magistratura.
- Nel tentare di difendere lo stato di diritto, in ultima analisi il desiderio dei partner è di garantire la libera circolazione dei beni, delle persone, dei capitali nel mercato unico. Se la magistratura non è indipendente, quanto si sentirà sicuro un investitore straniero in Polonia? Se l’università non è libera, quanto imparerà uno studente straniero in Ungheria?
- Posso capire che la scelta di far scattare il meccanismo di controllo delle autorità comunitarie dinanzi a meri “rischi” per il bilancio europeo possa far storcere il naso. Ciò detto, il regolamento in discussione ha come obiettivo di proteggere lo stesso bilancio europeo, e nel testo non mancano salvaguardie. Non mi sorprende che mentre Bruxelles si appresta a prendere a prestito a nome dei Ventisette 750 miliardi di euro, i paesi membri vogliano accertarsi che il denaro sia speso legalmente.
- Sia la Polonia che l’Ungheria sono beneficiari netti del bilancio europeo (ricevono più di quanto non versino). Ciò non significa che debbano essere sottoposti a vincoli particolari, ma significa che dovrebbero essere consapevoli dei vantaggi che ottengono dall’Unione e capire di converso le esigenze dei partner.
- Infine, per concludere, chi partecipa a un progetto in comune è chiamato inevitabilmente a un certo punto ad accettare le decisioni prese alla maggioranza, tanto più che paradossalmente il regolamento in discussione è una garanzia per tutti i paesi di salvaguardare un bene comune: il mercato unico.