La pandemia influenzale che ha colpito il continente in questi ultimi tre mesi sta inducendo i paesi europei a ripensarsi. La Germania ne sta approfittando per aggiornare la sua politica industriale, preparandosi alle rivoluzioni digitale e ambientale, e a un mondo possibilmente meno globalizzato. La Francia vuole fare altrettanto, ma con margini di spesa minori. E l’Italia, in crisi da oltre 20 anni? Si parla di infrastrutture, digitale, ambiente, amministrazione pubblica, scuola; ma la confusione è molta.
Scrisse Charles de Gaulle nelle sue memorie:
“Per me, nel dramma nazionale, la politica dovrebbe essere l’azione al servizio di una idea forte e semplice. Ma loro (i politici, ndr) non accettavano altro se non che fosse una coreografia di atteggiamenti e di espedienti, guidata da un balletto di comparse professionali – dalla quale dovevano emergere solo articoli, discorsi, esibizioni oratorie e distribuzione di poltrone”.
Il generale si stava riferendo alla Francia del dopoguerra, non all’Italia del 2020.
Proprio il generale, al potere tra il giugno del 1944 e il gennaio del 1946, gettò le basi della ricostruzione francese dopo il conflitto, optando su tre grandi misure: l’annullamento del debito con gli Stati Uniti, firmato a Washington nel 1946; la creazione dell’Ecole Nationale d’Administration, decisa nel 1945; e la nascita di un nuovo quotidiano, Le Monde, apparso per la prima volta nel 1944. Il mondo è cambiato, ma le tre priorità golliste sono sorprendentemente d’attualità in Italia.
Incredibilmente le stesse tre priorità potrebbero mettere mano alla radice del problema italiano: il clientelismo, che spreca le risorse, contribuisce all’inefficienza, mina la concorrenza e il merito, provoca frustrazione, esacerba tensioni sociali e rabbia generazionale, tanto da indurre migliaia di persone ad emigrare.
La crisi finanziaria del 2008 ha ridotto il margine di manovra nell’usare il debito pubblico per soddisfare le varie corporazioni nazionali. La speranza surrettizia di alcuni è che l’atteso generoso denaro comunitario possa permettere al paese di rimpinguare le casse nazionali, finanziando nuovamente i clientelismi locali. Il rischio è che l’Europa non lo permetta. Chi vuole veramente riformare il paese deve mettere mano al volano finanziario dei tanti familismi nazionali.
Non è un caso se Charles de Gaulle creò l’ENA dopo la guerra. Prima di lui la Francia aveva deciso di fondare Sciences Po dopo la sconfitta a Sedan del 1870. In Germania, Federico il Grande era convinto che la Prussia del Settecento non potesse competere ad armi pari con la Francia o l’Inghilterra senza un solido sistema universitario. Fondò nel 1770 la Technische Universität Berlin. La stessa Humboldt Universität nacque nel 1810, mentre la Prussia si apprestava a lanciare l’ultimo e vittorioso assalto alla Francia napoleonica. Storicamente, un paese rinasce dalla scuola. D’altro canto, è a scuola e all’università che si dovrebbero formare i cittadini.
La terza priorità è quella relativa ai giornali. La crisi sanitaria è stata l’occasione per un forte aumento degli abbonamenti negli Stati Uniti, in Germania, in Francia, nel Regno Unito. Nel primo trimestre di quest’anno il New York Times ha registrato 587mila abbonati in più. In Francia, Le Monde ha ridotto il numero di articoli del 25% in due anni, ma nell’ultimo decennio ha assunto 150 giornalisti in più. “Al Monde, pensiamo che bisogna scrivere meno articoli, ma meglio”, spiegava di recente il suo direttore Luc Bronner. Nell’aprile scorso, la diffusione del giornale è aumentata dell’11% su un anno, del 23% su due anni e del 33% su cinque anni.
Alla ricerca di informazioni precise, rigorose, durature, i giornali in molti paesi d’Europa sono stati il porto d’approdo. In Italia, nonostante aumenti delle vendite durante la pandemia influenzale, la crisi editoriale perdura da anni. Possiamo interrogarci sugli inconfessabili motivi; ma in generale, i quotidiani italiani sono schiacciati dalla confusa quotidianità del dibattito pubblico nazionale, da cui non riescono a prendere le distanze. Ogni giorno teatralizzano l’attualità. Molte interviste ad hoc; pochi articoli di approfondimento. Molto impressionismo; poco rigore.
Charles de Gaulle sapeva che la Francia del dopoguerra, spaccata da gravi tensioni politiche dopo il collaborazionismo con il Nazismo, avrebbe avuto bisogno di un organo di stampa aperto sul mondo, credibile, rigoroso, influente e soprattutto indipendente, che permettesse all’opinione pubblica di girare pagina rispetto al periodo precedente. Si affidò all’esperienza di Hubert Beuve-Méry. Come la scuola, i giornali contribuiscono alla formazione dei cittadini. Come un professore nei confronti degli studenti, un quotidiano ha anche un impegno morale nei confronti dei lettori.
Una ultima considerazione. Questa settimana inizieranno a Roma gli Stati Generali dell’Economia, come la classe politica italiana alla ricerca perenne di slogan ha definito pomposamente gli incontri istituzionali che dovrebbero servire a delineare un programma di ricostruzione nazionale. La più celebre delle riunioni degli Stati Generali si tenne il 24 gennaio 1789, convocata da Luigi XVI. Fu l’ultimo disperato atto dell’Ancien Régime. Da lì a pochi mesi, i parigini assediarono la Bastiglia.
(Nella foto, a destra, Charles de Gaulle nel 1964 all’inaugurazione del nuovo campus di HEC, la business school parigina, a conferma dell’importanza che il generale dava al tessuto scolastico e accademico)