La crisi, o meglio le crisi, che si sono succedute in questo ultimo decennio in Europa hanno mostrato con luciferina sistematicità una dicotomia tra lettera dei trattati e prassi dei trattati, e quindi un ricorso frequente su questioni cruciali alla Corte europea di Giustizia. Il rischio è che questo fenomeno possa moltiplicarsi, con il pericolo di crescenti incomprensioni politiche e istituzionali.
Mi spiego meglio con tre esempi.
Il primo riguarda l’ultima controversa sentenza della Corte costituzionale tedesca. Vi sono due modi di leggere la decisione del 5 maggio contro gli acquisti di debito da parte della Banca centrale europea. Il primo è quello che mette in risalto la scelta nazionalista di Karlsruhe di ignorare una precedente sentenza della Corte europea di Giustizia, favorevole all’istituto monetario. Non per altro il rischio è che la Commissione europea apra una procedura di infrazione contro la Germania.
L’altro modo di guardare la sentenza è di ammettere che la magistratura tedesca ha potuto esprimersi sulla questione per via di un assetto istituzionale che non è né federale né confederale. La Bundesbank non è forse banca dell’Eurosistema, ma anche istituzione tedesca? I Trattati non impongono forse proporzionalità nelle decisioni comunitarie? La democrazia è più europea o nazionale? Possiamo discutere delle risposte, ma la legittimità delle domande è evidente.
Nei fatti, le scelte di politica monetaria della Banca centrale europea sono state federali, ma in un contesto che continua ad avere radici confederali.
Curiosamente, non è la prima volta che succede.
Nel 2015, i paesi dell’Unione decisero alla maggioranza qualificata di imporre forme di ricollocamento dei rifugiati arrivati in Italia e in Grecia. La scelta fu disattesa da alcuni governi, tanto che la Commissione dovette fare ricorso dinanzi alla Corte europea di Giustizia. Quest’ultima ha dato ragione all’esecutivo comunitario. Eppure, non pochi giuristi hanno notato come la scelta del ricollocamento obbligatorio fosse in contraddizione con l’assetto istituzionale.
L’Unione europea è uno spazio comune ai paesi membri, ma la frontiera esterna del singolo paese è gestita a livello nazionale, così come l’applicazione del diritto d’asilo. Il ricollocamento tra i paesi membri è stata una scelta federale (così avviene, per esempio, in Germania con una distribuzione tra i Länder decisa a Berlino), ma è avvenuta in un assetto confederale. Non per altro, le sentenze della Corte europea di Giustizia sono state nel frattempo disattese, e il ricollocamento è diventato nei fatti volontario, non più obbligatorio.
L’ultimo esempio di questa dicotomia tra lettera e prassi riguarda la recente liberalizzazione degli aiuti di Stato. Dinanzi allo shock economico provocato dalla pandemia influenzale, la Commissione europea ha deciso di autorizzare a tappeto le iniezioni di denaro pubblico da parte paesi membri. Anche qui è emersa una contraddizione. Il mercato è unico, le norme che lo regolano sono uniche, ma i bilanci sono nazionali.
Il risultato è che Bruxelles stessa si aspetta che i paesi più ricchi possano emergere da questa fase più forti. Il mercato unico rischia di diventare più segmentato di prima. Non sorprende se alcune società – in particolare la compagnia aerea Ryanair – abbiano già annunciato ricorsi dinanzi alla Corte europea di Giustizia per via di aiuti a Lufthansa o a Air France che le penalizzeranno. Ancora una volta, la prassi è federale ma il contesto è almeno parzialmente confederale.
La lezione da trarre da questi esempi è che l’assetto istituzionale non è più in fase con la realtà e con la prassi. Le crisi che si sono succedute negli ultimi anni – finanziaria, sociale, sanitaria – hanno reso stridente questa dicotomia. Per ridare coerenza tra legge e azione una modifica dei Trattati appare ormai essenziale. Molti governi si sono opposti finora per paura di scontentare una popolazione sedotta da tesi euroscettiche.
Difficile essere ottimisti. Eppure, il pericolo è che l’attendismo possa promuovere ulteriormente le incomprensioni tra i paesi e la disaffezione degli elettorati. Come nel Pari de Pascal, converrà forse ai governi chiedersi se convertirsi all’europeismo non sia in fondo il minore dei mali pur di evitare una disintegrazione dell’Unione europea che rischia di essere travolgente.
(Nella foto scattata da Sebastian Gollnow – AFP, tratta dal sito di France Culture, i giudici della Corte costituzionale di Karlsruhe pronunciano la storica sentenza del 6 maggio scorso)