Questa settimana potrebbe essere cruciale per il futuro del Regno Unito nell’Unione. Londra e Bruxelles stanno negoziando alacremente l’accordo di divorzio prima di una uscita fissata per il 31 ottobre. L’esito del negoziato rimane incerto, ma il momento è certamente critico, e vale la pena tornare sui motivi per cui la Gran Bretagna ha scelto la strada di Brexit. Conosciamo quelli più evidenti. Sempre presente nel paese, il sentimento euroscettico è diventato irrefrenabile per via della crisi economica e finanziaria del 2008. L’idea di una Europa unita si è rivelata nelle mani del populismo britannico uno strumento politico e una arma elettorale.
Eppure, credo che dietro alle scelte inglesi si nasconda in fondo l’arrivo dell’euro. Mi spiego meglio. La Gran Bretagna di Edward Heath entrò nella Comunità economica europea nel 1973 con l’obiettivo di influenzare le politiche comunitarie, in ultima analisi per fare dell’Unione un grande mercato unico di cui approfittare il più possibile. Esposto alle correnti atlantiche, lo sguardo sempre rivolto a un impero ormai disciolto, il paese non ebbe mai desideri di integrazione politica con i vicini del continente.
Negli anni, il Regno Unito accettò controvoglia la nascita di alcune cooperazioni rafforzate nel campo della giustizia e della libera circolazione delle persone, chiedendo e ottenendo degli opt-outs. Ma non riuscì a frenare l’arrivo della moneta unica, a cui naturalmente non volle partecipare. L’euro ha portato con sé cambiamenti notevoli negli equilibri politici europei, strumento di nuova integrazione e di un nuovo processo decisionale da cui Londra è oggi rumorosamente assente.
La Gran Bretagna è azionista della Banca centrale europea, ma non partecipa al consiglio direttivo che ogni mese decide la politica monetaria della seconda moneta più importante al mondo dopo il dollaro. La Gran Bretagna siede nell’Ecofin, il consesso dei ministri delle Finanze europei, ma non nell’Eurogruppo che regolamente è chiamato a decidere la posizione dei paesi dell’euro sui grandi temi internazionali. La Gran Bretagna siede nel Consiglio europeo, ma non partecipa ai vertici della zona euro dove si decidono, tra le altre cose, obiettivi e modalità di un nuovo bilancio dell’unione monetaria.
Inevitabilmente, l’euro ha portato con sé nuove forme di frequentazione, di collaborazione, di coordinamento tra i governi che condividono la moneta unica, dalle quali il Regno Unito è straordinariamente escluso. Dietro alla decisione del premier David Cameron di indire il referendum su Brexit tre anni fa vi erano certamente motivi di politique politicienne – il tentativo di riunire il partito conservatore – ma anche l’inconfessabile ammissione che l’Europa di oggi non era più quella degli anni Settanta e che il divario tra i paesi dotati dell’euro e lo stesso Regno Unito era cresciuto a dismisura. La capacità britannica di influenza in Europa si è ridotta grandemente: agli occhi di molti inglesi rimanere nell’Unione non è solo inutile o addirittura pericoloso, è anche profondamente imbarazzante.
Insomma, dietro a Brexit vi è paradossalmente il successo dell’Europa. Se il ragionamento è corretto, vi è forse un parallelo da fare con la disgregazione dell’Unione Sovietica. Dietro alle riforme della perestroika di Mikhail Gorbaciov dal 1985 in poi vi era certamente la consapevolezza dei limiti del regime comunista dinanzi ai successi economici americani, allo schieramento degli euromissili in Germania e in Italia, alla Guerra delle Stelle di Ronald Reagan, ma anche coraggiose scelte comunitarie e in particolare la nascita del grande mercato unico.
Nel 1979, una sentenza della Corte europea di Giustizia (sul caso Cassis de Dijon) stabilì che ogni prodotto legalmente fabbricato e commercializzato in un paese doveva essere in linea di principio ammesso in tutti gli altri. La decisione non fu banale: lasciò intendere che la liberalizzazione del mercato poteva precedere l’armonizzazione del mercato. Successivamente, nel 1984 a Fontainebleau i paesi della CEE decisero di istituire due comitati – Doodge e Adonnino – per studiare nuove forme di integrazione nell’economia e nella politica. Nel 1986, infine, venne firmato l’Atto Unico, che emendò i Trattati, completò il grande mercato unico, e aprì la via all’euro.
Si puo capire come il susseguirsi di queste scelte creò angoscia nella dirigenza sovietica. Nello stesso modo in cui il processo di graduale integrazione europea indusse l’Unione Sovietica a lanciarsi in riforme tanto disperate quanto esplosive, tali da portare alla disgregazione del paese, oggi lo stesso processo di graduale integrazione europea sta inducendo la Gran Bretagna a lasciare l’Unione (senza escludere che anch’essa drammaticamente possa disgregarsi).
Sia la chiave di lettura con la quale capire Brexit, sia il parallelo tra l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna rivelano la forza dell’Europa. Una forza troppo dirompente, potrebbero chiedersi alcuni lettori ? D’altro canto, nelle sue memorie, l’ex presidente della Commissione europea Jacques Delors riassume con efficacia le componenti che secondo lui segnano (o dovrebbero segnare) il disegno comunitario: “la competizione che sprona, la cooperazione che rafforza, la solidarietà che unisce” (Mémoires, Plon, 2004).
(Nelle foto, rispettivamente sopra l’ex primo ministro conservatore britannico David Cameron; sotto l’ex segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov)