Saranno giornate e settimane difficili quelle che da qui a metà ottobre dovrebbero portare alla presentazione di un bilancio per l’anno prossimo. La maggioranza che governa l’Italia, composta dal Movimento Cinque Stelle e dalla Lega, è attraversata da gravi tensioni. Alcuni esponenti politici vorrebbero un bilancio espansivo, fino a violare le regole europee; altri credono a una gestione prudente dei conti pubblici. I mercati finanziari sono sul chi vive, così come le società internazionali che devono con regolarità dare il loro voto al debito pubblico italiano.
Con una frase ad effetto, il vice premier Luigi Di Maio (M5S) ha definito lo spread un numero qualsiasi, assicurando: “Non siamo ricattabili”. Sappiamo perfettamente che non è così. Lo spread, vale a dire il divario di rendimento tra obbligazioni italiane e obbligazioni tedesche, riflette il giudizio che i creditori (italiani e stranieri) danno della solvibilità del paese. Pensare che una politica espansiva in un paese che cresce poco, è poco produttivo ed è molto indebitato lasci indifferenti gli investitori è pericolosamente illusorio e ingenuo
Il Tesoro ha sottolineato che nelle ultime aste di titoli pubblici la domanda è rimasta comunque elevata. È vero. Tuttavia, due aspetti sono stati fatti notare dai partner dell’Italia in una riunione diplomatica venerdì scorso a Bruxelles: l’evidente aumento dei tassi d’interesse rispetto alle aste precedenti e l’acquisto generoso di obbligazioni da parte delle banche italiane. In poche parole la domanda c’è, ma a fronte di un incremento del rendimento e a scapito dell’interesse degli investitori stranieri. Nel dicembre del 2017, il 50% dei titoli del debito pubblico italiano era detenuto da banche italiane. Secondo alcuni analisti, la quota è da allora aumentata.
Il Movimento Cinque Stelle è tendenzialmente pronto a politiche di bilancio più generose, mentre la Lega è divisa tra responsabilità finanziaria e la tentazione di uscire dall’euro per poter godere di svalutazioni monetarie. Si possono immaginare i rischi di una politica economica poco prudente e di un velleitario tentativo di braccio di ferro con i mercati, nell’illusione di vincerlo.
L’arrivo al potere dei partiti più radicali ed estremisti ha indotto numerosi paralleli con il passato. Uno in particolare vale la pena ricordare mentre una parte dell’Italia si dice pronta ad affrontare di petto i mercati finanziari e flirta con l’idea di uscire dall’unione monetaria. Circa ottant’anni fa, il regime fascista decise l’invasione dell’Etiopia. La Società delle Nazioni annunciò sanzioni economiche contro l’Italia. Il governo organizzò una campagna intitolata “Oro alla Patria”. Il 18 dicembre del 1935 si tenne la Giornata della Fede, durante la quale migliaia di italiani donarono la propria fede in oro per aiutare il paese a contrastare le sanzioni internazionali e a finanziare lo sforzo bellico. Un filmato d’epoca mostra che la prima a offrire oro alla patria fu la Regina Elena in un clima di entusiasmo nazionale.
L’abbandono dell’euro e il ritorno alla lira equivarrebbero a una drammatica svalutazione. Quest’ultima potrebbe forse aiutare le esportazioni italiane, come sperano alcuni imprenditori, ma nel contempo scatenerebbe un aumento brusco dell’inflazione e renderebbe carissimi se non virtualmente impraticabili gli acquisti all’estero di materie prime. Gli investitori stranieri diserterebbero del tutto le aste di titoli pubblici, mettendo a rischio lo stesso funzionamento dello Stato; la crisi economica provocherebbe un fortissimo aumento della disoccupazione e della povertà, col rischio non solo di manifestazioni popolari, ma anche di sommosse violente. Una nuova campagna di Oro alla Patria sarebbe a quel punto solo questione di tempo. La colletta, in questo caso, sarebbe probabilmente forzosa: come reagirebbero gli italiani?
(Nella foto, di Ernesto Fazioli-Archivio Regione Lombardia, il risultato della raccolta di oro per la patria a Cremona nel 1935)
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