La scelta della Commissione europea e in particolare del suo vice presidente Frans Timmermans di invocare l’articolo 7 dei Trattati, chiedendo ai governi di lanciare un avvertimento alla Polonia per un grave rischio di violazione dello stato di diritto ha scatenato reazioni in tutta Europa.
Prima di tutto un po’ di storia. È la prima volta che viene invocato l’articolo 7, una norma con la quale i paesi membri possono all’unanimità sospendere il diritto di voto di un proprio partner. L’obiettivo dell’articolo è di assicurare nell’Unione che tutti i paesi membri rispettino i “valori comuni” in cui si riconosce l’Europa e che sono elencati nell’articolo 2 dei Trattati. Negli anni questo articolo è cambiato più volte.
Nel Trattato di Amsterdam, la norma considerava l’ipotesi di una violazione dello stato di diritto in un paese e lasciava aperta la porta a una conseguente decisione politica dei partner. Nel Trattato di Nizza, l’articolo era stato modificato, non parlando più dell’ipotesi di un rischio, ma di un rischio vero e proprio. La modifica è stata fatta propria dal successivo Trattato di Lisbona che prevede una procedura in due tappe. Il primo comma di questa norma prevede che “il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, possa constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro”. Il comma 2 della stessa norma stabilisce che, all’unanimità, i paesi membri possano decidere la sospensione di “alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione (…) compresi i diritti di voto (…) in seno al Consiglio”. Secondo alcuni esponenti comunitari qui a Bruxelles, vi sarebbe una maggioranza sufficiente per far scattare il primo comma (23 paesi su 28), mentre l’unanimità richiesta dal secondo comma dell’articolo appare difficile: l’Ungheria ha già detto più volte che intende opporsi. Nel redigere i due articoli, i paesi hanno voluto per quanto possibile proteggere se stessi da interferenze esterne.
Perché la Commissione europea ha deciso di agire contro la Polonia? Controindicazioni non sarebbero mancate. Vi è il rischio che né il comma 1, né il comma 2 riescano ad essere applicati, visti i quorum richiesti. Vi è il rischio poi che la scelta provochi nuove ondate di euroscetticismo non solo in Polonia ma anche in altri paesi nazionalisti. Infine, vi è il rischio di mettere irrimediabilmente in pericolo i legami tra i paesi membri. In realtà, al netto delle dichiarazioni legittime sui valori europei, sull’importanza di garantire la separazione dei poteri, e sulla necessità di difendere la democrazia in Polonia, la scelta è stata dettata da ragioni molto concrete. L’esecutivo comunitario, carte alla mano, teme che il sistema giudiziario sia politicizzato. In buona sostanza, il vero pericolo agli occhi di Bruxelles è che l’applicazione del diritto comunitario, demandata in tutta Europa alle magistrature nazionali, non sia indipendente e imparziale. Le imprese europee che fanno affari in Polonia rischiano di non poter contare su decisioni giudiziarie che siano obiettive.
Purtroppo questa ragione molto concreta e molto comprensibile è andata persa nella comunicazione della Commissione europea. Perché? Qui a Bruxelles alcuni osservatori sospettano che l’esecutivo comunitario abbia preso la sua decisione con una buona dose di imbarazzo, che si è tradotto in affermazioni di principio più che in spiegazioni di fatto. Imbarazzo determinato dal problema che la stessa procedura ex articolo 7 dei Trattati avrebbe dovuto essere aperta anche nei confronti dell’Ungheria, come chiesto a suo tempo dallo stesso Parlamento europeo. In maggio, l’assemblea aveva criticato le controverse scelte del governo Orbán nel campo dell’istruzione straniera nel paese. In precedenza le critiche avevano riguardato il trattamento dei richiedenti l’asilo e delle organizzazioni non governative. Criticate sono state anche le leggi sulla stampa. Il premier Viktor Orbán avrebbe goduto della protezione del Partito popolare europeo, complice la presenza nel PPE del partito Fidesz, al governo a Budapest, come nota tra gli altri Stefan Lehme di Carnegie Europe. Il partito Giustizia & Diritto, che governa a Varsavia, non appartiene ad alcuna delle grandi famiglie politiche europee, ma al gruppo parlamentare nazionalista ECR (i riformisti e conservatori europei).
(Nella foto, il vice presidente della Commissione europea Frans Timmermans, 56 anni)
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