Mentre la classe politica si accapiglia con una buona dose di ipocrisia e strumentalizzazione sul futuro di Ignazio Visco, il governatore della Banca d’Italia il cui mandato è in scadenza, nuovi dati hanno confermato le particolari difficoltà italiane. Secondo Eurostat, il braccio statistico dell’Unione europea, la percentuale di italiani a rischio di povertà o di esclusione sociale è aumentata tra il 2008 e il 2016, dal 25,5 al 28,7% della popolazione. In termini assoluti il numero di italiani in grave difficoltà è salito da 15,08 a 17,46 milioni. I dati pubblicati questa settimana confermano molte idées reçues, ma ne smentiscono di altre. Il tasso di povertà, lo chiamerò così per semplificare, è aumentato in molti paesi, soprattutto del Sud Europa. In Grecia, in Spagna, a Cipro. Tutti paesi che hanno beneficiato dell’aiuto comunitario. Non è aumentato in Portogallo, nonostante anch’esso abbia ricevuto il sostegno europeo pur di evitare il tracollo debitorio (è sceso dal 26,0 al 25,1%).
Il dato italiano è tra i più elevati, ma non è il più elevato tra i Ventotto. Fanno certamente peggio la Grecia, la Bulgaria, la Lituania, la Romania. Come altri paesi sviluppati, anche l’Italia deve fare i conti con la mondializzazione dell’economia e la rivoluzione digitale, due straordinari fenomeni che stanno rimettendo in discussione molte sicurezze e comportano un assottigliamento della classe media e un drammatico allargamento della forbice tra ricchi e poveri. Tuttavia, commetteremmo probabilmente un errore nell’attribuire la tendenza alla povertà solo all’andamento dell’economia.
Certamente, lo sconquasso finanziario e poi la recessione economica hanno messo in difficoltà molte imprese e il paese nel suo insieme, ma è soprattutto l’assetto sociale che è in crisi, sotto pressione su più fronti. Il sistema clientelare e familistico sta mostrando la corda perché non può più godere del volano del debito pubblico, come in passato, e deve fare i conti con sfide che richiedono flessibilità, meritocrazia e spirito di iniziativa, non protezionismo, lealtà di clan e rendite di posizione. Per di più, l’attuale assetto sociale ed economico protegge le vecchie generazioni e le radicate corporazioni, a danno delle giovani generazioni o di coloro che non appartengono ad alcuna famiglia. Per decenni, gli italiani si sono spartiti il patrimonio nazionale oliando i meccanismi sociali con denaro pubblico (attraverso piccole e grandi evasioni fiscali, sussidi, monopoli, pensioni, tangenti, sovvenzioni, e altri favori o prebende). Il sistema riusciva bene o male a trovare un equilibrio tra domanda e offerta, e tutti o quasi vi trovavano, o pensavano di trovarvi, il proprio tornaconto. Oggi non è più così.
La crisi dell’economia, la sfida della globalizzazione e le regole dell’Europa sono tre fattori che stanno aumentando la concorrenza internazionale e riducendo la possibilità di utilizzare il debito pubblico come un enorme ammortizzatore sociale, capace di autofinanziare un assetto sociale chiuso, protezionista, costoso. La partecipazione all’euro impone la modernizzazione dell’economia e il risanamento dei conti pubblici proprio mentre questi ultimi sono già sotto pressione per via della recente recessione e dei cambiamenti strutturali dell’economia. Il risultato è che emergono inevitabilmente nuove forme di povertà, e soprattutto di esclusione sociale.
Come detto, tutti i paesi occidentali stanno affrontando le sfide della modernità, ma in Francia o in Germania il tasso di povertà negli ultimi otto anni è sceso, non salito (rispettivamente dal 18,5 al 18,2% e dal 20,1 al 19,7%). Il più recente sondaggio Eurobarometro, pubblicato nei giorni scorsi, ha mostrato che solo il 39% degli italiani considera che il loro paese abbia tratto vantaggio dell’appartenenza all’Unione europea, rispetto al 64% della media europea. Gli italiani attribuiscono all’euro le difficoltà del paese. Ma queste sono probabilmente da attribuire a noi stessi, più che alla moneta unica, la quale in fondo non ha fatto che mettere in luce i nostri limiti.
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