Non sappiamo ancora come si concluderà la vicenda catalana. Nel suo discorso di ieri sera, il presidente della Catalogna è sembrato voler frenare su una rapida dichiarazione di indipendenza. Nei fatti Carles Puigdemont appare isolato. I risultati del voto referendario di domenica non sono univoci (ha votato appena il 40% degli aventi diritto, e in modo confuso e incerto). L’uomo politico, poi, è criticato da una parte della popolazione catalana, dall’establishment spagnolo e dalle autorità comunitarie. Proprio la Commissione europea si è voluta particolarmente critica questa settimana dinanzi al Parlamento europeo. In un dibattito parlamentare, il vice presidente dell’esecutivo comunitario Frans Timmermans ha sancito indirettamente un cambio di dottrina. Per molti anni, Bruxelles ha coltivato il suo rapporto con le regioni. Era un modo per annacquare in qualche modo il potere degli stati nazionali e favorire una integrazione europea dal basso. Oggi, a sorpresa, la Commissione è la prima a difendere l’integrità della Spagna, e indirettamente degli altri paesi.
“Il voto di domenica non era legale”, ha detto il vice presidente dell’esecutivo comunitario Timmermans, riferendosi al referendum indipendentista che si è svolto in Catalogna. Se “la violenza non è mai una soluzione” e domenica si sono viste “immagini che intristiscono” è tuttavia “diritto di ogni governo difendere lo Stato di diritto e questo a volte richiede un uso proporzionato della forza”. Le forze dell’ordine hanno suscitato sorpresa per il modo in cui domenica hanno cercato di impedire il voto. Ricordando il dettame costituzionale spagnolo, l’ex ministro degli Esteri olandese ha aggiunto che un atto di indipendenza della Catalogna “non è compatibile con lo Stato di diritto”.
Agli occhi della Commissione europea una secessione catalana e una disintegrazione della Spagna avrebbero conseguenze pericolose, per l’Unione ma soprattutto per la zona euro. Ne risentirebbe come minimo l’immagine della moneta unica, in Europa ma soprattutto all’estero. Dopo avere favorito negli anni 90 la collaborazione tra le regioni – contribuendo all’accordo di collaborazione tra Lombardia, Catalogna, Rhône-Alpes e Baden-Wüttenberg nel 1988 e alla nascita del Comitato delle Regioni nel 1994, un organismo istituzionale che deve servire ad avvicinare gli enti locali al processo di integrazione europea – la Commissione vede improvvisamente nelle stesse regioni un rischio per la tenuta stessa dell’Unione. La Scozia vuole lasciare il Regno Unito. La Padania dice di voler lasciare l’Italia. La Catalogna vuole lasciare la Spagna. Le Fiandre vogliono lasciare il Belgio (è un obiettivo “di lungo termine” ha voluto precisare alla radio belga questa settimana il ministro degli Interni e leader nazionalista fiammingo Jan Jambon).
Come detto, non è chiaro come si concluderà la vicenda catalana. Personalmente la via dell’indipendenza mi sembra assurda e controproducente. Mi aspetto a un certo punto che l’establishment regionale rinsavisca. Ma la crisi spagnola ha certamente indotto un primo cambio di dottrina a Bruxelles, e un sorprendente ritorno in auge dello Stato nazionale, proprio mentre il metodo intergovernativo sembra prevalere nei lavori comunitari. Ciò non è necessariamente negativo. I dirigenti nazionali potrebbero vedere in una maggiore integrazione europea un modo proprio per annacquare le spinte regionaliste ed evitare una disgregazione dei singoli paesi.
(Nella foto, Frans Timmermans, il vice presidente della Commissione europea ed ex ministro degli Esteri olandese mercoledì 4 ottobre, in aula a Strasburgo)
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