Recenti statistiche hanno confermato quanto in cuor nostro già sapevamo o sospettavamo. L’Italia è il paese nel quale è più alto il numero di giovani tra i 20 e i 34 anni che né studiano, né lavorano, né sono in formazione (NEET, secondo l’acronimo inglese). Sono il 30,7% del totale (la media europea è del 18,3%). La quota italiana tra i 15 e i 24 anni è del 19,9%. L’Italia fa peggio di alcuni paesi europei più poveri, come la Bulgaria e la Romania. Da molti osservatori la terribile statistica è stata attribuita principalmente alla crisi economica che colpisce il paese da decenni. Quest’ultima è certamente uno dei fattori, ma nel citarla non vorrei che stessimo mentendo a noi stessi. Se la situazione giovanile è così difficile è probabilmente per un assetto sociale basato sul clientelismo e il familismo, sul corporativismo e la cooptazione. Nel pubblico e nel privato. Andiamo per ordine. Dietro alle statistiche si nascondono inevitabilmente molti fattori: un sistema universitario che facilita il fuori corso e dà alla laurea un valore legale; un sistema scolastico che non prepara sufficientemente alle professioni manuali e ai mestieri moderni; un mondo del lavoro segnato da una elevata disoccupazione, ma anche da una anacronistica segmentazione accademica. Chi studia lettere non potrà che scegliere professioni umanistiche. Chi studia ingegneria non potrà che optare per professioni scientifiche. A questi fattori strutturali possiamo aggiungere la pigrizia degli uni, la sfortuna degli altri, e il destino degli altri ancora. Dieci anni fa, l’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa parlò di “bamboccioni”, riferendosi tra le altre cose a famiglie troppo protettive. Più in generale, tuttavia, è l’assetto sociale probabilmente il principale colpevole.
C’è da chiedersi se dietro all’elevato numero di NEET non vi sia un sistema sociale dove a influenzare l’ingresso nel mondo del lavoro sono la protezione del corporativismo da un lato e la difesa dei diritti acquisiti dall’altro. Mentre nel resto dell’Europa la sfida della globalizzazione viene affrontata aprendo al merito e al coraggio, in Italia la risposta è troppo spesso il protezionismo degli interessi e la chiusura su se stessi. Mentre nel resto dell’Europa sono premiate l’intraprendenza e l’originalità, in Italia si preferisce troppo sovente il conformismo e l’inerzia, più rassicuranti e meno pericolosi. Mentre nel resto dell’Europa il nonnismo è confinato al mondo militare, in Italia segna i rapporti nell’intero mondo del lavoro (a cominciare da stages non remunerati). Non è un caso se nelle statistiche pubblicate dalla Commissione europea, l’Italia e la Grecia facciano parte dello stesso gruppo: sono entrambi paesi familistici, in evidente difficoltà nell’adattarsi alla concorrenza internazionale. Quando l’economia cresceva e il denaro circolava, le inefficienze del clientelismo e del familismo erano così dire annacquate. Oggi non è così, e le ultime cifre lo dimostrano. Naturalmente, a peggiorare le cose è l’elevata tassazione e l’angariante amministrazione. Ma come non attribuire proprio l’elevata tassazione a un debito pubblico che finanzia nei fatti le varie corporazioni italiane? E come non ammettere che le scelte vessatorie non sono una caratteristica solo del mondo pubblico? Chi scrive ha ricevuto qualche settimana fa una multa di 40 euro dal proprio istituto previdenziale privato (l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani) perché colpevole di non avere dichiarato l’assenza di redditi da diritti d’autore sui quali – se fossero stati presenti – l’INPGI avrebbe potuto incassare un contributo. In questo contesto, i più intraprendenti lasciano il paese per cercare fortuna all’estero. I meno coraggiosi si affidano alla lealtà di clan piuttosto che allo spirito d’iniziativa, e aspettano che la generazione più anziana lasci finalmente il posto ai più giovani. Da anziani rischiano di comportarsi come i loro genitori. Peccato. Alexis de Tocqueville diceva: “Ogni generazione è un popolo nuovo”.
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