A pochi giorni dal referendum costituzionale di domenica, l’establishment europeo si interroga sul futuro dell’Italia e sul suo premier Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio ha provocato risentimento, delusione e divisioni che hanno lasciato il segno. Sul fronte del voto, l’Europa politica ha preso posizione a favore del Sì. Nessuno crede che la riforma modificherà radicalmente l’assetto istituzionale. Molti credono che quest’ultimo abbia bisogno di una modernizzazione più ambiziosa, ma sono anche convinti che l’abolizione del bicameralismo perfetto sia un passo in avanti per velocizzare l’iter legislativo. Non per altro, a favore della riforma hanno preso posizione il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble. La stampa anglossassone si è divisa: a favore del Sì il Financial Times, a favore del No The Economist. Ciò detto, al netto del referendum, l’Italia non gode di ottima immagine in questo momento. Il primo motivo è strettamente politico. Il premier Renzi aveva ricevuto a metà anno una apertura di credito, segnata in particolare dall’incontro in agosto a Ventotene con il presidente francese François Hollande e la cancelliera Angela Merkel. Da allora, l’apertura di credito è andata scemando. Poteva essere altrimenti dopo tutte le critiche che il governo italiano ha riservato a Bruxelles e ai suoi partner, in particolare alla Germania, in questi ultimi mesi? Cavalcare l’antieuropeismo di una fetta dell’elettorato italiano non è privo di conseguenze nelle altre capitali europee. L’establishment comunitario ha accettato senza troppo rumoreggiare scelte controverse: una Finanziaria per il 2017 fuori norma; un veto a una modernizzazione delle misure di difesa commerciale che la stessa Italia aveva chiesto; un altro veto contro una revisione del bilancio comunitario 2014-2020 che va nella direzione richiesta da Roma. Tutti sanno qui a Bruxelles e a Berlino che queste scelte sono dovute al tentativo di mostrare in Italia che il governo è decisionista, capace di far sentire la propria voce. Hanno accettato le decisioni italiane con un occhio al voto di domenica, ma temono che anche con una vittoria del Sì, il premier continuerà a criticare l’Europa e i suoi partner, in vista delle elezioni legislative del 2018. Non è facile per un governante, neppure a Berlino o a Parigi, accettare di essere criticato pubblicamente senza reagire. Quanto i suoi partner sono pronti a perdonare al premier in caso di vittoria del Sì e quanto rimpiangeranno lo stesso premier in caso di vittoria del No? Più in generale ci si interroga se il governo Renzi sia fonte di stabilità o instabilità. Il secondo motivo per cui l’immagine dell’Italia è annebbiata è economico. La Finanziaria per il 2017 presentata a suo tempo dal governo è in chiara violazione delle regole del Patto di Stabilità e di Crescita. La Commissione europea, con l’avallo dei principali governi, ha deciso di chiudere un occhio, almeno per ora, aspettando il referendum. Ma qui a Bruxelles e in altre capitali, molti si sono sentiti presi in ostaggio da Roma. Al di là della bontà del ragionamento italiano di politica economica, l’atteggiamento è sembrato quello di un governo che, consapevole dell’importanza del voto anche per l’establishment comunitario, ha voluto strappare tutto il possibile. In un intervento davanti al Comitato delle Regioni il 7 novembre Juncker lo aveva fatto capire: «L’Italia non cessa di attaccare, a torto, la Commissione europea». A torto perché gli elementi di flessibilità di bilancio introdotti nel Patto dalla stessa Commissione europea hanno offerto al paese margini maggiori di spesa per un totale di 19 miliardi di euro. «L’Italia – aveva aggiunto l’uomo politico – ci aveva promesso un deficit dell’1,7% del Pil nel 2017 e oggi invece ci propone un deficit del 2,4% del Pil allorché il costo dei rifugiati e dei terremoti si riduce allo 0,1% del Pil». Riassumendo la politica economica europea, aveva poi detto: «Non si deve più dire – o meglio si può sempre dire se lo si vuole, in fondo non mi interessa… Insomma, non si può più dire che le politiche di austerità siano continuate con questa Commissione». Agli occhi di alcuni, Matteo Renzi avrebbe anche drammatizzato l’importanza del referendum per ottenere il massimo. Siamo però in questo caso sul terreno del processo alle intenzioni. Più in generale, a due anni e mezzo dall’arrivo al potere del premier, ci si interroga su quanto realmente abbia fatto o potuto fare per riformare il paese. Nelle prese di posizione della Commissione e del Consiglio, vi sono per certi versi un ottimismo della volontà e un pessimismo della ragione. Quando i ministri delle Finanze della zona euro si riuniranno lunedì, all’indomani del voto, dovranno decidere tra le altre cose se chiedere o meno all’Italia nuove misure per arginare il deficit. Dovranno soppesare attentamente i pro e i contro, e decidere se essere comprensivi con il paese sia di reale beneficio alla stabilità politica ed economica dell’Italia e dell’Europa. Sempre più spesso esponenti europei, comunitari e nazionali, si dicono preoccupati, non tanto sullo stato delle banche quanto su un debito pubblico elevato, che non accenna a diminuire, e da una perdurante divergenza italiana con il cuore dell’Europa. La disoccupazione giovanile, la bassa produttività, le diseguaglianze sociali, le differenze geografiche sono tutti fattori che stonano con la presenza di una moneta unica, a modo loro stanno esacerbando l’euroscetticismo nel paese, tanto da indurre molti osservatori a preoccuparsi per il futuro italiano ed europeo, indipendentemente dalla vittoria del Sì o del No nel voto di domenica.
(Nella foto, la cancelliera Merkel, il presidente Hollande (a sinistra), e il premier Renzi a Ventotene (a destra). Era il 22 agosto scorso)
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