La decisione della Commissione europea di imporre ad Apple di rimborsare al governo irlandese 13 miliardi di euro di tasse non versate è una scelta che da un punto vista morale è più che comprensibile. In una ottica politica e legale, i dubbi sono invece leciti. Da un punto di vista morale, Apple e Dublino hanno agito con pochi scrupoli. Si sono accordati per dare la possibilità alla società americana di pagare un ammontare limitatissimo di tasse sul fatturato dell’azienda non solo irlandese ma più semplicemente europeo. Per anni, Apple ha trasferito reddito verso l’Irlanda, pagando tasse con una aliquota che in alcuni casi è stata pari allo 0,005 per cento. Sappiamo che la società ha usato l’abbondante liquidità a disposizione per investire in Ricerca e Sviluppo, e fare tra i prodotti più innovativi oggi esistenti sul mercato. Sappiamo altresì che il tax ruling (come si chiama in inglese questo tipo di accordo fiscale) ha garantito al governo irlandese posti di lavoro in un momento di gravi difficoltà economiche. Ma ciò non giustifica una tassazione straordinariamente bassa, ingiusta nei confronti di migliaia di altre aziende e contribuenti. Per non parlare dei paesi europei dove la merce è stata venduta e che non hanno incassato alcun gettito fiscale relativo al fatturato di Apple. Da un punto di vista legale, la scelta della Commissione è fonte di dubbi su tre fronti. Prima di tutto c’è da chiedersi se gli accordi fiscali possano essere veramente equiparati ai classici aiuti di stato illegittimi perché violano la libera concorrenza nel mercato unico. In secondo luogo, Bruxelles se la prende con uno strumento di politica economica, il tax ruling, che è piena responsabilità sovrana di un paese membro. Non solo la tassazione è materia dove vige l’unanimità tra i Ventotto, ma vale tuttora nell’Unione il principio “No Taxation Without Representation”. La politica fiscale dipende dal governo nazionale perché la rappresentanza democratica è in ultima analisi a livello nazionale. Il terzo dubbio riguarda la retroattività. In ambito fiscale, finché non c’è prescrizione, le autorità nazionali o europee possono naturalmente chiedere in via retroattiva il denaro evaso o eluso; ma in questo caso a essere retroattiva è anche la stessa valutazione della Commissione. Peraltro, la sua è una valutazione discrezionale poiché non vi sono regole precise per capire se una tassazione sia o meno in violazione delle regole sulla libera concorrenza. Forse questi tre fattori hanno influenzato la reazione molto moderata degli investitori. Il titolo della società americana ha perso pochissimo in Borsa, quasi che gli azionisti si aspettino il successo dei ricorsi presentati dall’Irlanda e dalla stessa Apple. Non è facile prevedere l’esito politico di questa vicenda. I più ottimisti potranno sperare che il caso Apple indurrà i paesi a fare passi avanti verso una ulteriore integrazione politica, e verso una maggiore armonizzazione fiscale. I più pessimisti vedranno invece nella vicenda una nuova conferma della deriva europea. Più in generale, salta agli occhi ancora una volta il contrasto tra i limiti imposti dall’attuale assetto confederale europeo e le questioni sempre più federali che la Commissione europea è chiamata a risolvere. Quando nel 2015 Bruxelles annunciò un clamoroso progetto di ricollocamento obbligatorio dei rifugiati arrivati in Grecia e in Italia mise in crisi alcuni governi, come quello lettone. Oggi in crisi è quello irlandese, combattuto tra la difesa della propria politica fiscale e il recupero di 13 miliardi di euro, pari al 23 per cento del proprio bilancio nazionale.
(Nella foto, la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager in occasione della conferenza stampa di martedì 30 agosto 2016 in cui ha annunciato la decisione relativa ad Apple)
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